Scherzo grottesco N°II

La “meglia” birra del mondo

di antonio triente disegno di Massimo D’Aponte

Quando, nel millenovecentottantaquattro, il mondo – o almeno buona parte di esso – era avvolto in un manto di contraddizioni stridenti fatte di colori sgargianti, creste solari e orribili Timberland, che guerreggiavano con gli spasmi assordanti e i fruscii stridenti delle musiche buie e senza vita – il Dark –; quando i Black Sab­bath fingevano di essere ancora vivi, duri e cazzuti (senza Timberland), noncu­ranti delle rivoluzioni Punk che li avevano investiti e si erano bruciate, senza che nemmeno se ne fossero accorti; quando, dice­vamo… quando tutto ciò era una realtà epocale europea e mon­diale, ad Afraore, oltre ai numerosissimi amatori del club dell’eroina, sedativo più che mai in voga in quegli anni, non era stato concesso altro, in rappre­sentanza dell’epoca, che qualche cresta moscia e un po’ di giacche scure bor­chiate, tutti in una piazzetta triangolare con uno “stupendo” chiosco, incas­sato in un palazzo cadente, nel quale potevi trovare “le meglie birre del mondo” – così era scritto da qualche parte sul bancone. E in quel chiosco – il chiosco di “Zi’ Vicienzo”, come affettuosamente si faceva chiamare l’acquaiolo – ci trovavi, appunto, zi’ Vicienzo, un ometto rubi­condo dai capelli bianchissimi; ovvero, una piccola porzione del suo corpo malcelato, che faceva capolino da un’angolino, dove il buon uomo soleva dilettare le sue interminabili e faticose – a suo dire – giornate e nottate, esercitando la de­stra in rumorose e numerose masturbazioni aperte al pubblico, che lo poteva facilmente scorgere, sporgen­dosi leggermente sul bancone, ad allenare il braccio stappabirre dietro alle quinte del suo teatrino. Con la sua prolificità, in effetti, avrebbe fatto invidia al più incallito e perverso quindicenne di tutto l’hinterland napoletano.

Ma cos’altro avrebbe potuto fare, infatti, il caro acquaiolo per far passare la gior­nata tra una birra e l’altra, visto che lui non le beveva nemmeno quelle birre, dato che era astemio, ironiadellasorte, il buon uomo, oltre che biecamente tirchio.

Era amato da tutti il buon zi’ Vicienzo, nonostante i suoi difettucci e le sue “esercitazioni”, e da tutti era tollerata la sua destra allenata, quando, dopo un di­vertito “Te la stappa?”, agguantava il collo della birra che tra poco avresti bevuto e, con uno sforzo titanico, che impegnava, come ogni buon attore sul palco, tutto il suo corpo, la stappava strascicando la sue luride dita lungo il collo della bottiglia.

Non tutti però gli erano così devoti, né tutti tolleravano i suoi spassi onanistici. Tra i profani c’erano – forse gli unici, in realtà – proprio alcune di quelle giacche nere borchiate, alle quali abbiamo già accennato: una minoranza in via di estinzione, guardata come si guarda un raro animale allo zoo. Non tolleravano, quelle giacche, la man­canza, come dire… di tatto di zi’ Vicienzo; ma nemmeno tolleravano la spessa voluttà con cui diceva “Te la stappa”, calcando la voce sul verbo sbagliato di proposito, o forse no; e odiavano la grassa risata che seguiva quella simpatica frase, e il suo aspetto congestionato dalle troppe seghe, che forse a quell’età non gli facevano più tanto bene… insomma, lo odiavano tutto quel repellente buon uomo, ma si servivano lo stesso di lui, contentandosi solo di inveire sottobaffo contro i suoi defunti: in fin dei conti, tutti avevano il diritto di campare dopo un sana bestemmia.

E, in effetti, nemmeno loro erano dei veri e propri stinchi di santo e dove­vano pur bene intuirlo. Forse per questo riuscivano a trovare un minimo di tollerabilità da appli­care incon­sciamente anche a quell’uomo.

Le vedevi spesso scorazzare a vuoto in una vecchia Diana caffelatte, le giacche; almeno quando avevano racimolato qualche soldo per la benzina, il fumo e le birre. Era dura la vita a far niente: fingere di studiare, qualche lavoretto sporadico e malpagato, la bor­setta di mammà… A ventiquattro anni si fanno sentire forte esigenze ed istanze d’autonomia, e di queste condizioni era difficile non soffrirne; ma va bbuono: dopo una buona fumata non era poi così difficile accantonare certi problemucci ed immergersi tra la braccia della regina d’oriente.

Ma non è certo di tutta la loro insulsa vita che vogliamo raccontare: sa­rebbe un’infeconda tortura della noia più crudele. Ci basterà solo isolare un piccolo avvenimento della loro sciagurata esistenza, isolato in una piccola porzione di tempo, nella loro piccola piazza…

Era notte e aveva piovuto tantissimo. I nostri erano stati in auto tutta la serata, aspettando che il tempo passasse davanti al parabrezza solcato dalla pioggia battente. Erano circa le due quando la pioggia ebbe smesso di battere la terra e nella piazza non era rimasto più nessuno, a parte pochi stanchi ero-sostenitori, ormai dormienti sulle fredde panchine bagnate: il che equivale a dire che non c’era nessuno – oltre ai nostri cari ragazzi, naturalmente. Il mo­mento era adatto alla birra, che per tutta la serata era mancata. I tre scesero dall’auto e andarono dal buon Zi’ Vicienzo per sopperire a quella antipatica mancanza e, come era loro solito, si accostarono al bancone con quanta arro­ganza era loro possibile e ordinarono ddoie birre, grandi.

Assopiti nel riverbero di uno stordimento stupefacente, i tre non si resero conto, sulle prime, di ciò che accadeva al buon uomo, mentre con le sue mani di fata stappava le loro birre: gli si raggrinzì per un attimo il volto in una perfida smorfia di dolore, lasciò cadere il fedele cavatappi dalle mani e si accasciò lentamente sul bancone prima, a terra poi, stringendosi il petto con una mano e cercando, se non di chiedere aiuto, almeno di esprimere il pro­prio disappunto soffocato verso quell’episodio, che gli stava portando via i rimasugli della sua misera vita. Un “tocco” al cuore. Ecco cosa stava portando via Zi’ Vicienzo. Gli sguardi attoniti dei ragazzi sembravano voler sottolineare quella che a loro appariva come una sconcia stramberia, più che una grave emergenza, e che come uno spettacolo macabro e indesiderato stava loro dinanzi. Compresa finalmente la situazione, i tre penetrarono nel teatrino dell’acquaiolo, col primo intento – sincero ma non solerte – di soccorrerlo. Uno dei tre, un uomo in miniatura dalla cresta riccioluta, fu il più attivo e si precipitò sul corpo infermo del suo “nemico” cercando di comprendere l’origine del malore, scuotendolo come un forsennato – mettendo in atto, così, un chiaro esempio di ciò che assolutamente bisogna evitare di fare per soccorrere un infartuato.

- Chiamate soccorsi! – diceva, mentre cercava di rianimarlo con scosse e schiaffoni.

- Eh, aiutatelo! Aiutatatelo! – gli faceva eco l’amico, scuro e nerboruto, capelli alla Clash, con un tono che, invero, non si sarebbe detto molto allarmato. Il terzo, invece, tutto nero coi calzini bianchi ficcati in delle esili Converse, si era trattenuto solo un attimo davanti al corpo del buon acquaiolo, per poi eclissarsi; ma faceva sentire tintinnante il suo oscuro da farsi nel retro del chiosco, dove c’era il frigorifero.

- Salvatelo, salvatelo! – fu l’eco rimbombante tra il rumore delle bottiglie.

Ma nessuno si muoveva. Non con quell’intento, almeno.

Riverberavano, quei parossistici appelli d’aiuto, di un non so che di sarcastico. Si sarebbe detto che a quei due non stesse molto a cuore la vita del buon’uomo. E Dario, l’orsetto crestuto, se ne dovette facilmente accorgere quando, astratto dalla sua opera di “soccorso” da strani rumori, si rese conto che a produrli era Massimo – il forzuto –, che vide intento a scassinare la cassa che gli resisteva, pur continuando la scenata dei soccorsi. Attonito, Dario si alzò e, quando fu nel retro del chiosco, per avvisare l’altro di ciò che succedeva nel teatrino, lo scorse nel tintinnio delle bottiglie a scegliere e saggiare una miriade di birre, le più raffinate, che forse mai avrebbe potuto comprare. Senza capire bene come, Dario si ritrovò carico di bottiglie, così come Mimmo – l’assaggiatore. Intanto Massimo aveva preparato per loro un divertente sketch. Appena li vide entrare carichi di birre nel teatrino, iniziò a manovrare il cadavere di Zi’ Vicienzo, reggendolo da dietro, come una marionetta macabra del kabuki. “Te la stappa? Ha, ha, ha”, diceva ancora una volta l’involontario burattino. “È la meglia birra del mondo” continuò, con cadenza oscena, prima di scaraventarlo al suolo, senza evitare che il cadavere sbattesse fragorosamente la testa contro lo spigolo della cassa, la quale rovinò su quel corpo martoriato, aprendosi. Finalmente, in uno scrosciare di risa stridenti, il buon Dario rinsavì e capì quanto stupido era stato a preoccuparsi così tanto per quell’uomo, visto che la morte è destino di tutti e che bisognava gioire per chi ormai, fortunato!, non soffriva più.

E probabilmente i tre avrebbero continuato a lungo a far baldoria, in onore del caro acquaiolo, se non avessero udito il rumore di un’auto lontana, che veniva verso di loro. Prima che potessero essere visti, cercarono di mettere un po’ d’ordine nel chiosco, caricarono più casse di birra nella Diana e Massimo prelevò quante più banconote di grosso taglio gli fu possibile sgraffignare dalla cassa aperta. Poi si diressero verso l’auto che spuntava appena da una strada laterale e la bloccarono gridando che serviva aiuto. Il conducente non riusciva a capire il perché delle risa che scoppiavano come spasmi soffocati sulla bocca dei ragazzi; ma si spiegò tutto come una reazione nervosa al tragico evento, vista la solerzia e la preoccupazione che i tre mostravano. Intanto, richiamata dall’allarme, una piccola folla disomogenea si autoalimentava nella piazza, alla ricerca della disgrazia.

In breve un’ambulanza fu lì. Gli infermieri svegliarono uno alla volta, con molta violenza – forti schiaffi, scossoni e grida: così si fa con chi è in overdose – i tossici dormienti, sparpagliati in giro, pensando che fosse per uno di loro che erano stati disturbati nel cuore della notte. Questi però, ingrati, ne furono molto risentiti e, raccoltisi in un nugolo di zombie, protestarono che era inammissibile che un libero cittadino venisse così disturbato senza motivo.

Quando i paramedici furono da Zi’ Vicienzo era ormai troppo tardi. Era morto di infarto e, al quanto pare, doveva aver battuto pesantemente la testa cadendo. Il medico constatò il decesso e ad uno degli infermieri quasi scappò una lacrima, pensando a tutte le volte che aveva bevuto una birra e scambiato quattro chiacchiere con l’acquaiolo, durante i suoi noiosissimi turni notturni. Arrivarono anche i carabinieri, che interrogarono, in modo molto informale, i tre ragazzi che avevano dato l’allarme. Ma tutto era molto chiaro: l’uomo aveva avuto un infarto e cadendo si era aggrappato alla cassa, che gli era crollata addosso aprendosi; i tre ragazzi erano arrivati poco dopo e subito avevano dato l’allarme. Nulla di strano fu notato.

Una sola cosa però diede da pensare per qualche minuto al brigadiere Avallone Mario, pochi giorni dopo l’accaduto, mentre sedeva rilassato davanti a un cruciverba.

Tutti, se ben ricordava, nella piazzetta che lentamente si era sempre più affollata di curiosi, ma proprio tutti tenevano qualcosa in mano; anche le signore, che si erano precipitate giù dai palazzi vicini, a vegliar sulla disgrazia, con uno spesso scialle di lana buttato sulle spalle.

Possibile che anche loro bevessero birra?

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