Mezzaluna di ferro di Fabio Rocco Oliva
Un lungo attimo dilatato traboccava solo silenzio, avvolgendo il vecchio ponte di provincia, custode di massi consumati e foglie secche, in una gonfia espansione d’assenza di movimento. Da un pezzo, ormai, s’era fatta notte e il freddo umido rendeva la campagna una scultura di vetro: le colline erano circondate da una fitta nebbia che trasfigurava ogni cosa in uno sbiadito ricordo, in un quadro inafferrabile; il fiume che solleticava le braccia del ponte fluiva silente, quasi cristallizzantesi, nascosto a tal punto da essere dimenticato e riesumato solo dal ricordo del suono che un tempo rigurgitava. Tali scherzi di natura, immersi nell’oscurità, s’ammucchiavano come ombre impalpabili nel buio, e, a colonizzare le distanze delle forme, si stendeva un’ovattata luce bianca che proveniva dalla luna, come un’insensata visione miope. Il ponte si distendeva dall’una all’altra sponda, inarcandosi prepotentemente al centro, proprio nel punto in cui sosteneva il peso di due donne solitarie, chiuse nella certezza di essere invisibili ad ogni cosa fosse intorno a loro, il fiume, alle colline, al ponte o a qualche insolito passante. Erano l’una di fronte all’altra, quelle due donne, spiandosi nel buio come due specchi opachi, sentendo solo il calore dei loro non più giovani corpi: nel simultaneo sospiro ansimante, in qualche movimento furtivo. L’incertezza e l’angoscia scorrevano dense tra quei due corpi, come la nebbia intorno a loro, come il fiume tra le due sponde. Cominciò a soffiare un soffice vento che ondeggiava tra i capelli e le loro camicie di seta, portando con sé un leggero e piacevole odore, un suono graffiante, rossopungente, che stringeva le donne in un cerchio tremulo. Le loro spalle venivano coperte da una sfera fredda, un mantello che le isolava dal profondo buio: il buio marino della natura vaporosa.
Marlene infilò lentamente le dita nella borsetta di pelle che portava sempre con sé, il mascara, il rossetto, avvertendo lungo ogni centimetro, un irrimediabile solletico al palmo destro, gelido e sudato. Dopo aver seguito il movimento della propria mani, alzò li capo con espressione indifferente, cercando di puntare gli occhi sul volto dell’altra donna, ma lo disperse subito quello sguardo costruito a fatica: divenne attonita, calpestando nel nulla. Marlene vide evolversi il volto attraverso punti neri e ghiacciati, attraversando ogni pausa di spazio fino a vederlo inghiottito dal buio. Poi, il suo corpo, senza alcuna ragione, s’indurì, rapido e gelido, e la canna della pistola che stringeva adesso tra le mani, estratta in sorteggio dalla borsetta, si puntò come pozzo profondo, sul corpo dell’altra donna. L’indice carezzò il grilletto sentendo la curvatura seguire perfettamente il polpastrello, incastonato nella mezza luna di ferro, e si fermò a lungo per assaporare la totalità di quel contatto. Tutto procedeva con estrema naturalezza, ogni movimento, ogni pausa di timore, ogni imprevisto o dubbio o paura, tutto ticchettava perfetto come un orologio. La natura stessa, ombrosa intorno al ponte, sussultava in simmetria beffarda.
Quale reazione si andava generando da quell’insieme di mostri? Cos’è l’attimo che precede l’imboccatura di un sentiero? Da cosa, i possibili accadimenti si dissolvono nell’unico rappresentato? La chimica di ponti invisibili tra l’uno e l’altro riferimento sembra riscoprire e confermare se stessa, solo quando ogni elemento del mosaico s’infila nell’unica combinazione comprensibile: congiungimenti che completino l’opera secondo il nostro naturale modo di comprendere, verso un ingannevole svelamento degli intrecci d’attimi e occasioni. Ma, talvolta, l’imprevedibile e impensabile sconvolgimento di un equilibrio può, al contrario di quanto si possa sperare, essere una combinazione altra rispetto al nostro prospettare e non per quest’annunciabile come un irrimediabile collasso: solo un’altra delle possibili e incalcolabili possibilità, ottuse e in sé insensate, come la visione d’un miope. In fondo, ha valore la differenza tra il rappresentato e l’aborto di tutti gli altri rappresentabili?
Confuso nel più profondo buio del ponte, si mascherava un’ombra, un fantasma. Per tutto l’attimo era stato lì in rispettoso silenzio, senza far pesare la sua presenza, ma per un capriccio, o una perfetta e unica coincidenza, quel fantasma prese vita inaspettatamente, e, alle spalle di Marlene, l’improvvisa luce di un lampione colore arancio, banale lampione arancio, invase le donne rompendo il sonno tra l’indice e il grilletto. Il fumo della canna della pistola andò ad annullarsi rapidamente con la nebbia, e il boato che il proiettile impazzito generò, rotolò per tutta la campagna, indisturbato e inascoltato.
Tutto tacque subito. L’illusione che l’immobilità fosse stata violentata si dissolse silenziosa e tenue. Veleggiando come una carta bianca, s’adagiava, così, verso terra il corpo dell’altra donna, esangue. Ogni movimento della propria caduta… Un’acuta e ultima lucidità le mostrò il buco provocato nel suo stomaco dal proiettile. Il folle calore che rendeva insensibile il corpo tutto, le suggeriva una chiara consapevolezza di quanto era accaduto, della rovina del suo corpo, delle macchie di sangue sulla camicetta e sulla gonna, fino alle gambe bianche. Una confusione di colori la stordì, l’arancio del lampione, il pallore delle sue gambe, il rosso del sangue, il buio dell’intorno. S’abbandonò verso terra avvolta da un ricordo arancione intoccabile, da un malinconico sorriso bianco che sapeva di gambe nude, da una densa nebbia rossopungente, dal vuoto oltre ogni cosa. E vide per ultimo i tacchi a spillo di Marlene dirigersi lontano e scomparire, sbiadendosi in un cerchio nero, dissolvenza d’una lacrima.
Marlene stringeva tra le mani la pistola e non smetteva di tremare, di soffrire l’assenza di quei seni che da tempo ormai non erano più suoi. L’impossibilità di avere ancora per sé quella donna e la mancanza del possesso dell’altro corpo, che adesso precipitava al suolo alle sue spalle, l’aveva resa pazza. Rideva, divertita d’aver vendicato il suo dolore dopo essere stata abbandonata. Marlene l’aveva trascinata lì con calma accogliente, le aveva chiesto un ultimo ricordo, voleva assaporare ancora una volta tutto il loro passato insieme. L’altra l’aveva seguita sapendo bene cosa sarebbe potuto accadere, era andata lì consapevole, sverginata dalla vita. Sapeva che l’esito di quell’incontro era necessario per Marlene, mentre per lei stessa era solo uno svuotarsi in favore dell’altra. La vittima pensava che il proprio sacrificio sarebbe stato indispensabile per l’amante, che l’avrebbe resa una spirale non lineare, un contenitore di un segreto nuovo. Immaginava la propria morte per mano dell’amante abbandonata come un dono ultimo, non d’amore sessuale ma di freddezza, di quel freddo oltre le relazioni, oltre la vita, quel freddo di qualcosa che è al di là dell’inevitabile visione, qualcosa celato all’interno di ogni mostro di corpo.
Marlene si voltò di scatto, si mosse come se qualcosa le pungesse sotto i piedi, e corse d’istinto verso l’altra donna, accovacciandosi su di essa. La strinse a sé, le annusò i capelli, le guance, se la tenne al petto. Guardò il buco che le aveva provocato: era sul punto di piangere malinconica per l’ennesima inafferrabilità, per l’ennesima incompiutezza. Era un corpo morto quello, quando sentì il sangue della ferita scorrere sulla mano. Sentì lo stesso calore che la vittima poco prima aveva sentito dalla perforazione del proiettile impazzito, lo stesso calore doloroso che rende insensibili. Se lo portò al viso quel sangue, se lo portò alle labbra, agli occhi e i due corpi si strinsero in un perverso abbraccio. Quel sangue e quel calore le ricordavano il sapore del loro letto, delle loro intimità unite e le carezzò i seni, i fianchi, la ferita. Con affanno, più volte, cercò di sollevare il corpo dell’amante, di rimetterlo dove era prima dello sparo, di costruire lo stesso bivio di prima. Si aiutò con un braccio del ponte, un muro lercio di sassi antichi ed erbacce, e poggiò il corpo proprio lì dove era prima che il lampione s’accendesse. Sorrise, quasi lacrimando, e lo strinse ancora di più a sé, sollevò lentamente e con sensualità la camicetta, come faceva sempre, e le toccò nuovamente i seni: questa volta erano ben morti. Si baciarono ripetutamente, con passione, tutto sembrava essere tornato come prima dello sparo, come alcuni mesi prima. Le rimbombarono nella mente schegge di ricordi, di fughe notturne sul ponte buio, dilatazioni d’attimi irritrovabili, parole, frasi d’amore cercate e sperate.
Si scostò e si vide interamente macchiata di sangue, consapevole tutto ad un tratto, d’aver scambiato durante quell’abbraccio, il sangue per un segnale di godimento dell’amata. Si stupì e la lasciò cadere dal ponte verso il fiume. Si ritrasse per non guardare la caduta dell’amante assassinata e per non soffrire l’ineluttabile vero di quell’immagine, lanciò via la pistola: il fiume, assonnato, distratto, intravide solo i capelli di Marlene dietro il ponte e vide scagliarsi contro l’amante e la pistola – tornò subito alle sue occupazioni.
Tutto tacque. Non un rumore. Nemmeno il tonfo che avrebbe dovuto procurare il corpo dell’amata, o quello più leggero ma fendente della pistola. Si guardo intorno di scatto e preoccupata: nessuno l’aveva vista; le colline scomparivano; il ponte era occupato in altro; il fiume fluiva; la luce soltanto sembrava persistere, quella fastidiosa scia arancione. Nessuno era interessato e nessuno era presenta, quell’attimo dilatato era ancora salvo. S’affacciò, ma era troppo buio per vedere oltre il ponte cosa ci fosse. Si spinse al di là, solleticata dal dubbio che l’Assenza della consequenzialità logica aveva procurato. L’aborto di quei rumori era come un tassello mancante: tutto, in realtà, era andato secondo logica.
Si ritrovò. Così. Sospesa anche lei. In caduta verso il fiume che non riusciva a vedere. Per la nebbia. Per l’oscurità totale. Si era smarrita. Cercando la pistola. L’amante. Ma nulla. Solo il suo corpo verso il fiume. La forza di gravità. Il vento. I suoi abiti in dispersione abbandonavano il corpo. Cadendo. Cercando perché, cercando le colline. Il fiume. Il ponte. Ma tutto era svanito. Cadendo. Cercando di ricordare, cercando di afferrare qualcosa. Una sfumatura di ricordi. Una sua follia. Un’incapacità alla realtà. Ma niente. Odorandosi solo smarrita. In continua sospensione di caduta. Sentì la mancanza d’ogni riferimento. Di sognarne solo il contorno. Avendolo obliato ne conservava nello stomaco solo gli odori. La scia indicibile. L’incontrollato fermento di bile. Attonita nella sospensione continua della caduta. In quell’abisso precipitando presto - molto presto – si vide sparire. Rubare la propria immagine. Non più sé stessa. Solo un perpetuo scivolare in sospensione. Bloccata in un punto indicibile. Inafferrabile.
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