‘Da quanto tempo siamo qui?’ di Delio Salottolo
‘Ogni qualvolta il comportamento diventa sufficientemente individuale, diventa obbiettivamente antisociale e apparirà folle’
S. Sontag
Dappertutto si odono voci. Dappertutto si odono voci che rincorrono parole. E dappertutto parole che rincorrono significati. E dappertutto c’è chi disperatamente tenta di collocare i significati nella realtà. E ne rimane continuamente deluso. A volte le si vedono volteggiare, le parole, nell’aria limpida, a volte descrivono parabole attente e distorte, molto spesso diventa così complesso afferrarle che ci arrendiamo soffrendo. A volte incontriamo parole che descrivono concentrici disegni misterici, ed altre volte ci perdiamo tra le pieghe dei più miseri ‘cioè’. Spesso rincorriamo un significato per chilometri e chilometri di discorsi per poi comprendere che esso stesso risiede in un luogo altro rispetto alla nostra volgare realtà. Affannando tra discorsi incomprensibili e irrispondibili vaghiamo alla ricerca di una possibile comprensione che oramai ci è sfuggita come qualsiasi altra realtà verticale. E cerchiamo un cammino quanto mai originale e individuale; e poi comprendiamo che non è altro che un sentiero stanco e desolato. Il peso sulle spalle assume l’aspetto di una soma insostenibile: crolliamo improvvisamente sotto i colpi dei bracconieri della ragione che iniettandoci il loro veleno performativo ci rinchiudono in gabbie di parole e discorsi che non ci appartengono. Il loro dominio si compie così: tra mura bianche che non ci appartengono; tra riflessioni sempre più vaghe, tra affannati respiri verso la liberazione…
‘Da quanto tempo siamo qui?’
All’improvviso la voce di Lui rimbombò un po’ stupidamente nella sala buia. I vaghi contorni degli oggetti che dal fondo buio lanciavano flebili segnali e affermavano la propria sottile esistenza sembrarono infastiditi. Pensò immediatamente che una voce gettata fuori così all’improvviso dopo lunghe ed incalcolabili unità di tempo immerse nel silenzio non gli appartenesse. Si rendeva conto che troppo spesso noi non dominiamo quello che consideriamo il nostro strumento di dominio e superiorità per eccellenza: la parola. E che quelle parole pronunciate impunemente e volgarmente non erano altro che vittime di un silenzio che diveniva sempre più opprimente e non di una dichiarata volontà di accertamento. -Il tempo poi…cosa interessa a me il tempo il Buio
La mano di Lui intanto attraversava tutti i confini del corpo di Lei che giaceva immobile girata su di un lato porgendogli la immacolata schiena che si concludeva con i meravigliosi rilievi che disegnavano i glutei teneri che invocavano qualsiasi debolezza umana.
La mano di Lui attraversava il corpo di Lei come a invocare perdono per la sua stupidità; non riusciva ad attraversarlo con malizia anche quando si attardava sui punti che maggiormente le potevano provocare piacere. La mano di Lui era senza malizia, era in definitiva una mano distratta e svogliata non vogliosa e non volta a svegliare voglie.
Lei d’altro canto percepiva un tocco leggero ed insensato, una carezza lieve ma non delicata. La sua pelle non avrebbe mai potuto tremare ad un simile contatto.
‘Non lo so più…..Potrebbe essere un’ora o qualcosa di più…..Magari un giorno O forse un’ora che sembra un giorno…..Non è importante…E poi che t’interessa? La menzogna del tempo l’abbiamo smascherata da un bel po’ Non ti sembra? ’ . Rispose all’improvviso, Lei, all’improvviso riprendendo la domanda di Lui, che sembrava ormai dimenticata, producendo una voce gentile e severa che non aveva provocato neanche un sussulto nel suo corpo delicato. –Un’ altra voce di cui non pretendiamo la proprietà- Pensò Lui riallacciandosi al pensiero precedente.
Lei, intanto, fissava con gli occhi spalancati il bordo liscio del comodino. Una parete liscia aiuta la velocità del pensiero. Lei, dunque, pensava, vagava e fantasticava. Si immergeva in ricordi che hanno la caratteristica spesse volte di esseri figli di una fantasia creatrice piuttosto che di una più ovvia esperienza. Tornava, poi, all’improvviso alla realtà, a quella stanza dalle pareti bianche e lucide, a quell’uomo unico.
‘ Sai da quando sei qui Molte cose sono cambiate Un rapporto con la realtà più fecondo…credo….che il tuo problema sia sempre stata l’azione…mi ricordo quei cerchi concentrici sui quali eri capace di ragionare per ore…ordinavi tutte le cose che possedevi in forma circolare…e poi…ma come ti è venuto in mente…ma che cazzo avevi in testa in quel momento…mi hai fatto paura anche se ti conosco bene…anche se tu credi che due persone non potranno mai conoscersi….perchè ogni realtà è tragicamente finestra chiusa verso l’esterno…ne parlavi spesso di sfondare quella finestra….e l’hai sfondata e perchè lo hai fatto…perchè….’
Lui sentiva un violentissimo fruscio nelle orecchie. Il fastidio che può provocare il silenzio tra un discorso e l’altro quando il pensiero ancora in formazione non riesce ancora ad esprimersi attraverso la voce risoluta e chiara. Quando le attese diventano insostenibili. Quando, forse, non siamo sicuri di riuscire a dare la risposta che l’altro nel bene o nel male attende da noi.
‘Eh..eh..eh..mi viene da sorridere…ho Sfondato una finestra e sono precipitato in una Gabbia…Credo e ne sono fortemente convinto che la realtà dei miei gesti ed in generale di tutti i gesti possibili sia la rottura con lo schema…lo Schema..eh..eh..E’ proprio lo schema che ci fotte..E’ proprio lo schema che inserisce il tuo gesto nel sistema degli altri…
Ricadde sul letto. In realtà non si era sollevato ma il suo pensiero, la sua foga l’aveva portato verso l’alto. Per poi ricadere miseramente.
Lei intanto si era girata lo fissava con occhi grossi e dilatati come a voler scoprire la verità delle cose senza il dorato velo della luce. Lo guardava, Lui non se ne accorse per un bel po’.
Lui, invece, era immerso e fissava silenziosamente il soffitto come se una parete orizzontale gli potesse dare chissà quale risposta. Non sapeva più che pensare. Avrebbe voluto gridare, ribellarsi e rispondere a tutti i suoi quesiti. Avrebbe voluto vivere ma la sua vita oramai non aveva più senso. Chiuso oramai da una infinità di tempo in quella stanza senza mai essere realmente convinto di ciò. Con la fortuna di avere una donna che con i suoi profumi e la sua nudità si sdraiava accanto a Lui. Pensava, però, che a Lui oramai era vietata qualunque cosa. Se in precedenza aveva provato a vivere a modo suo; ora quella camera gli impediva anche di essere realmente il folle che era prima, in quella camera non era neanche più folle. Che senso avrebbe avuto continuare la propria ricerca personale lì dentro. Si trovava in un limbo tra sanità e follia. Un limbo insulso e inutile. Un limbo che ha l’odore dell’alcool e l’abbraccio di una camicia di forza. E la cosa peggiore che era un limbo indotto da un potere superiore buono e puro che ‘aiuta’ i malati. Aveva dimenticato tutto ciò che lo aveva portato là dentro. Aveva dimenticato tutti i suoi pensieri. Aveva dimenticato la differenza tra un odore e l’altro. Tra la risata e la malinconia. E si vedeva abbrutito sempre più. –Fra poco Veramente non potrò Mai più uscire da qui faccio Schifo veramente-.
E continuava a tormentarsi. Un tormento che proveniva dai suoi pensieri e da come l’assenza di verità fosse la verità più prepotente e contraddittoria. Avrebbe voluto uscire da quella stanza ma fino a che punto avrebbe voluto? Volere, ma volere che cosa? Le quattro pareti bianche che sembravano quasi brillare al buio erano diventate per Lui una realtà non meno reale che simbolica. Era tutto bianco per il suo pensiero che non credeva più a nulla. Era tutto bianco. E mai il bianco fu più terribile che in quella situazione. –La maledizione del Bianco..fossi almeno nelle Tenebre vere e proprie Forse mi divertirei-
‘…ma…Perdonami Da quanto tempo siamo qui?’
Si rivestì velocemente. Lei. L’ora era ormai quasi conclusa. E doveva andarsene. Lui non sembrava dispiaciuto. Non era una situazione di cui rammaricarsi. Lo odiava per questo. Riprese la sua roba. Frettolosamente. Non dimenticò nulla. Senza proferire parola uscì dalla stanza. All’uscita la attendeva un medico. Avrebbe voluto parlare con Lei. Lei non se ne volle accorgere. Proseguì per il lungo corridoio asettico. Venne immediatamente assalita da un odore di alcool stordente. Li aveva sempre odiati gli ospedali. Assalita da odori. Urla incessanti di sofferenza. Infermieri che corrono. Altri che prendono caffé. Parlano di calcio. Della bellezza della nuova arrivata. Barelle abbandonate. Sacche di sangue su tavoli di marmo in camere chiare. Tutto ciò continuava a confonderla. Era sempre più stordita. Era stato Lui? O tutto il resto? Continuava a camminare. Distrattamente. Giunse finalmente all’ingresso dell’ospedale. Senza voltarsi neanche una volta indietro uscì con fermezza. Pensava all’attrazione che provava per Lui. Per il suo gesto. Per il suo pensiero. Per quella camera. Per quella vita allucinata. Lo ammirava. Forse lo amava. Si sentiva costretta a criticarlo. E non si spiegava il motivo. Continuava a camminare. Sempre più distrattamente. Pur essendo costretta ad una infinità di manovre pericolose: motorini che sfrecciavano ad alta velocità. Autobus incastrati tra un camioncino per il rifornimento ed una macchina contromano che attendeva di arrivare all’ospedale prima che fosse troppo tardi. La confusione. I rumori. I clacson impazziti. I colori. Il sole accecante. Il corpo della donna semi-svestita sul bordo del pullman. La violenza visiva. Poi la velocità. Lo sfrecciare. L’andare sempre di fretta. Gli odori volgari. Lo smog incessante. I bisogni dei cani sul marciapiede. L’impossibilità di portare un pensiero al termine. In mezzo a questo sovrappiù di sensazioni inutili e sempre più reali. Continuava a camminare. Pensò che avrebbe dovuto correre. Se voleva rientrare a lavoro al tempo debito. Sennò costretta di nuovo agli straordinari non pagati. E, poi, il dott. Tronchese con le solite urla. Che bastardo! Mai un aumento. Da un anno che mi sfrutta! E la spesa poi chi l’avrebbe fatta? Doveva correre. Soltanto correre per continuare. Per portare al termine qualsiasi cosa. Correre. Aspettando. Aspettando forse quella pausa settimanale di immersione nella follia. Nell’antisocialità. Che, però, le comunicava una calma ed una libertà. Ironia del destino, pensava.
-Le prescrivo un sano comportamento antisociale da compiere una volta alla settimana. Vedrà che si sentirà meglio. Mi raccomando non esageri che potrebbe sentirsi male e fare una brutta fine-.
Sorrise per questo suo pensiero. Corse verso le proprie faccende.
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