La natura assente
di romina daniele
Come quando in una chiusa alla solarità
eppure illuminata..
Perché rifarsi artificiosità
quando la natura è dominante?
Perché giovarsi della non-naturalità quando
la natura lascia esigue dimensioni all’infuori di sé?
Perché sentirsi bene in spazi ridotti?
Perché bearsi del ristretto non ideale
della fugacità perennemente ritornante.
L’acustica della natura diventa, di essa,
il testimone del rifiuto:
l’acustica della natura infonde gioia: è,
di essa, il testimone del rifiuto
(lì dinanzi agli occhi, spiato da tutti gli altri sensi:
che è ciò che pone al margine – perché
solo al margine, esistono
spazi ristretti, dimensioni che vorrebbero
essere difuoriste, ché ancora sono
in rapporto, di marginalità, con essa)
della natura.
Il sorriso di chi si è posto di fuori è il rifiuto,
gioia di chi è libero di sentire, gioia insita,
all’udire il caos che è esterno.
D’un tratto l’esterno è esterno a chi lo sente.
D’un tratto al margine c’è la natura.
Ciò che domina è l’artificiosità: ora si chiama
estetica passione: non certo la strada
che evita il suicidio ma l’universo dominante
essa è. Tutto ciò ch’è defraudato, natura
compresa, viene ora pulito dell’oscurantismo
che defrauda. La natura ha smesso di essere con l’atto del rifiuto.
Nella realtà si chiama natura
qualcosa che distrugge il controllo
dell’umanità su se stessa.
Ma l’umanità ha un falso controllo
a cui di naturale resta solo la mostruosità.
La natura, quando mai è stata
anima del naturalismo?
Questo aborto di se stessa, mostruosità
di cui si costituisce, cosa mai ha di naturale?
Una luce nel buio la natura non è.
Essa è un residuo, una infinita ossatura
del disprezzato, del disprezzo altrui.
Il concetto astratto di bellezza
perché mai sarebbe astratto, se
non che per essere sorretto
dalla imperfezione umana? Perché
l’imperfezione umana è dominante?
Ma tale bellezza ha da essere perfetta?
Giammai ciò che si chiama bellezza
ha avuto da che spartire con la tale perfezione,
la quale vince quanto ad astrattezza, torcendo
alla bellezza il suo concetto.
La bellezza è artificiosa, il che è diverso da:
la bellezza è non-naturale: quanto alla natura
fuori vige uno statuto abbruttito da non-naturalità. Ma questa non si chiama natura,
questa si chiama assenza!
Gioire di tale assenza
è qualcosa che può sembrare abominevole,
e cosa crediamo di fare gioendo del suo
stato di marginalità?
L’angustia che ricade sulla dimensione di gioia
non proviene che dall’incoscienza,
altrettanto abominevole, di gioire di tale assenza.
Guardare questa angoscia dal basso
vuol dire tapparsi le orecchie e non accettare
il suo rifiuto, sradicatore di assenza
che ci leva la gioia.
Giammai la gioia può vincere l’angustia circostante,
è una partita neanche da giocare.
Sarebbe il rapporto con la natura dominante.
Rifiutiamo il dominio,
non disprezziamo l’artificio che non domina
e viene beffeggiato e anche progredisce
indisturbato, ché ogni perturbazione,
scintilla o lampo d’infondatezza,
non penetra nessun cuore che pare sulla difensiva
come se soffrisse di esistere.. Ché il fattore che
determina la sua esistenza, anzi sua madre,
è la separatezza dal caos totale dell’assenza
non-natura che chiamano natura, cui
si attribuisce il concetto di
dominio pur di definirla,
è la separatezza.
Cosa importa se intorno chiamano questo:
cuore di non-natura, se intorno non sanno
che la natura è assenza?
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