IL CUORE IN MANO

di Umberto Duca

…il dubbio…

Quando mi sento stanco, ma più stanco di quando sono stanco, mi do tutta l’impressione di non riuscire a trovare, in alcun modo immaginabile, finanche la forza per respirare.

Anche se, da quello che conosco circa il funzionamento del mio corpo, quella della respirazione risulta essere una di quelle attività cosiddette involontarie, per la quale cioè non sussiste alcun bisogno di qualsivoglia specie d’applicazione o intento per farla attivare, ma va da sé. Da sola si attiva e lavora e da sola un giorno, non so quanto lontano ovvero quanto vicino si, per così dire, disattiverà tutta da sola!

Ebbene –credetemi!- in talune circostanze sento, in modo alquanto angoscioso, di dover adoperare tutta la volontà della quale dispongo per far continuare questo mio corpo a respirare e, di conseguenza non riuscire, malgrado tutti i miei sforzi e la mia applicazione, a trovare una condotta respiratoria soddisfacente. Penso di essere ammalato! Non in modo gravissimo, certo! Ma immagino a volte che questa mia insufficienza, per adesso solo legata ad alcuni momenti e situazioni, possa un giorno o l’altro diffondersi come un velenoso liquido penetrante a tutto il resto del mio amato corpicino.

Non vi sembrerebbe questa un’eventualità grave? Un’avventura di cui preoccuparsi?

…la conferma…

L’altro giorno, per l’appunto, ero seduto come sono solito fare all’imbrunire sulla mia poltroncina di raso-rosso e gustavo una dolce sigarettina di tabacco che accompagnavo con un goccio d’alcol, di quello buono, mentre fuori era possibile scorgere, dall’ampia finestra, le prime avvisaglie di primavera. L’addolcirsi dell’aria attraversata da lievi profumi donneschi, miriadi di uccellini cinguettanti e svolazzanti e poi ancora mille e più colori di cui si tinge tutto l’esistente, compreso quell’orribile ritratto, di cui ignoro sia autore che soggetto, che mia moglie a tutti i costi ha voluto intrufolare nella nostra camera. Orribile ed inquietante, non sto scherzando.

Il bicchiere s’era vuotato mentre ancora la mia sigarettina bruciava all’incirca verso la sua metà. M’alzai dal comodo giaciglio e m’avvicinai al mobile di faggio scuro, presi la bottiglia che poco prima avevo adoperato e la vuotai completamente nel bicchiere.

Fu questa un’operazione che m’elargì tanta di quell’appagante calma che, senza nemmeno avvedermene e mio malgrado, dipinse uno smagato sorriso sul mio volto. Appena ne fui pienamente consapevole mi voltai di scatto, che per un pelo non facevo andar giù buona parte dell’alcol che serbavo nel bicchiere, e ritornai pensoso sulla mia poltrona. Pensoso come se il sorriso che pochi istanti prima aveva abitato la mia espressione m’avesse, in certo modo, turbato un portentoso equilibrio che in quel momento aveva fatto di me, del bicchiere, dell’alcol e dei colori, i profumi e gli uccellini là fuori, un tutt’uno. Un’armonica costruzione dello spazio e del tempo distrutta in modo così stupido e sardonico da un mio grottesco sorriso, da un’emozione mal controllata, da un terribile venir a galla d’un piacere irato, che trovava lo spazio per uscir fuori dalle mie viscere, nello specchio liquido ed opaco d’una dose d’etilico.

Non nascondo la meraviglia che provai non appena seduto nuovamente sulla mia "rosso-raso" ebbi piena coscienza di questi turbamenti (e come dovrei chiamarli?) ed ancora essa aumentò non appena, alla vista dell’orribile quadro –che avevo esattamente di fronte giacché era ed è ancora posto accanto all’ampia finestra- fui assalito dal mio sforzo respiratorio, dall’incapace volontà del mio corpo di compiere il suo dovere, nonché mio diritto (credevo all’epoca cui codesti fatti sono riferiti).

Iniziò in questo modo quella lotta che ormai così bene conosco tra, quello che d’ora in poi chiamerò LUI (il mio corpo) e ME (la mia volontà).

-“…dovresti farlo da solo…dovresti essere tu a farlo…dovresti farlo da solo…”- ripetevo LUI, e mi ripetevo sgomento in mente nel mentre ch’avveniva ciò che vi narro.

Vedevo quello che mi sembrava il mio enorme petto alzarsi ed abbassarsi in modo artificioso, con una mancanza di naturalezza dunque, che mi riempiva gli occhi e l’animo d’un’angoscia mai provata sino ad allora…molto male tutto ciò mi faceva presagire. Ed ogni movimento, non sto scherzando, mi raggelava il sangue nelle vene. La pesantezza di quel mio enorme petto era paragonabile in quel momento a quella di dieci e più cani di grossa taglia, sentivo lo sforzo d’una partoriente tutt’intero sul mio petto e sulla mia forza d’animo.

Adesso mi dimenavo e mi contorcevo su quello che era stato fino a pochi attimi prima il più comodo e solenne giaciglio che si possa immaginare, guardavo alla mia destra ed alla mia sinistra in modo distratto che, subito l’attenzione si proiettava vorticosamente su quel torace artificiale e sul suo terrificante e scattoso movimento.

Dietro questa immagine, che il mio sguardo metteva nitidamente a fuoco, scorgevo come lontani e sfocati quelli che mi sembravano due enormi dipinti; la finestra con il suo mondo incantato di fuori ed ancora quell’orribile ritratto che iniziò velocemente ad assumere, al mio occhio, un’espressione, si direbbe “in cagnesco”, si! Mi guardava in cagnesco! Terribile.

A mano a mano anche quello che fino a pochi attimi prima m’era sembrato l’incanto del mondo, che arrivava ai miei sensi dalla finestra, iniziò ad infastidire la mia percezione e ad urtare irrefrenabilmente la mia nervatura.

Tutto quello che arrivava ai miei sensi era ormai canalizzato in un vorticoso fluire di suoni immagini e sensazioni incancellabili dalla mia mente, fluire tuttora vivo come sono vivo io adesso mentre vi parlo intorbidito.

Ma dovevo respirare! Il mio controllo volontario sull’attività di LUI non sarebbe per nulla al mondo dovuto smettere, pena la morte immaginai. Continuai ancora per un bel pezzo a guardar il mio meccanico petto andar su e giù poi, in men che non si dica, tutto mi apparve chiaro e l’accaduto di cui sembravo vittima svelò alla mia mente la sua vera essenza, eccola: -“ Il destino ha posto nelle mie mani un grande potere, il potere su di LUI, il potere di far divenire mia volontà ogni suo atto, ogni suo gesto ed ogni sua manifestazione, comprese quelle che per tutto il resto dei comuni mortali sono escluse dal vigile ed attento controllo di essa. DA QUESTO MOMENTO FARAI SOLTANTO ED UNICAMENTE QUELLO CHE VOGLIO IO!”-.

…la condanna…

Ecco a cosa pervenni, ecco quali furono le gloriose conclusioni di quest’evento che vi racconto con tanta partecipazione, con il cuore in mano potrei dire, queste dunque le conclusioni, queste le decisioni e questo ciò che accadde poi; riacquistai pazientemente il controllo su tutto il mio corpo ed iniziai ad applicare le conclusioni cui giunsi. Volevo respirare e respiravo. Volevo vivere e quasi come un despota tra i più tiranni assunsi il pieno controllo su di LUI, lentamente molto lentamente abituai ME alla fatica di muovere quel pesante petto ed ai suoi meccanici movimenti, scattosi ed irregolari. Mi calmai e risedetti comodo sulla mia poltroncina. Allungai lo sguardo fuori dalla finestra e ritrovai la gioia di quelle immagini e odori e suoni. Con la coda dell’occhio intravidi che l’orribile ritratto accanto la finestra aveva teneramente addolcito il suo sguardo e abbandonata la sua posa da bestia pronta all’attacco.

Tutto era tornato come poche ore prima, solo il sole era ormai quasi del tutto scomparso ed i miei pensieri abituali presentavano una grossa novità: -“Quelli che prima in malomodo mi sembravano episodi che m’avrebbero fatto ritenere una persona ammalata adesso, proprio uno di quelli m’aveva svelato appieno ed in modo irrefutabile quale fosse la mia vera e superiore natura”-.

Assunsi da quel momento il pieno controllo su tutte quelle attività che fino a quest’episodio LUI aveva portato avanti autonomamente e ne fui ogni giorno più fiero. La mia vita divenne da allora un immane sforzo di volontà che portava via con se, per intere, tutte le mie giornate, ma che tuttavia m’appagava in modo profondo. La maggiore soddisfazione la ebbi quando fui capace di sentire, come non ebbi mai avuto modo di sentire prima, e addomesticare, i battiti del mio cuore, di quello strano aggroviglio di carne pullulante di vita a cui non capisco perché si attribuiscono enormi poteri e facoltà. Ma io v’assicuro che il cuore è solo un muscolo, uno di quelli importanti certo, ma solo un muscolo.

E a dire il vero soltanto adesso mi accorgo della mia condanna e del mio conseguente amaro destino. Vivo oramai da un numero-innumerevole d’anni, voglio vivere e dunque vivo è stato il mio imperativo fino a questo momento. Ho conosciuto generazioni su generazioni, visitato in lungo e in largo anche gli angoli più sperduti del globo, sono stato sposato con più di due dozzine di donne ed ho partecipato ai più grandi eventi e rivolgimenti dell’umanità. Il tutto perché lo volevo, il tutto perché mi bastava volere che il mio cuore battesse per continuare a vivere, voler respirare e voler non aver fame, voler non morir di freddo nei rigidi inverni e non crepar di caldo sotto il sole dei terribili deserti nel quale a lungo ho vissuto.

Tutto questo non m’è bastato! Vorrei morire per poter finalmente scorgere un significato da attribuire a tutto quello che ho esperito e sono stato ma…ma…ecco la mia condanna, ecco la mia codardia che non mi fa abbandonare questa vita che continuo tutto sommato a volere a tutti i costi.

Sono in eterno condannato a decidere circa lo spegnersi del mio cuore. Chi di voi avrebbe il coraggio? Chi potrebbe esser capace di non voler più vivere?

Eccomi dunque, eccomi nella mia miseria più profonda: ho varcato un limite che in quel terribile momento di delirio che vi ho descritto, immaginai frapposto tra ME e LUI, un limite alla mia libertà, l’ho varcato e mi sono ritrovato al di la di esso, in una zona che m’era apparsa ampia e luminosa ma che credetemi, e non sto scherzando, è buia come uno sguardo cieco in una notte senza né luna né stelle. Non è affatto stata una liberazione quest’azzardata mossa, questa volontà di scavalcare questo limite postomi. Ecco tutta la mia abbietta miseria!

Ho abitato per secoli una prigione che ho costruito e addobbato d’oro e d’argento con le mie stesse mani, mettendole sul mio cuore, sui miei polmoni e…e su tutta la mia vita.

Voler vivere per non morire o vivere per poi morire? Badate bene la differenza è grossa e sostanziale e, amare sono le conseguenze di una scelta azzardata. Amare come una vita vissuta solo attraverso lo sguardo della lente opaca d’un asfissiante impegno a sfuggire ad una morte per altri naturale. Cosa avrei dovuto fare?

Mi son ritrovato a voler lottare ogni giorno, ogni ora ed ogni istante con: -“Se smetto di volere muoio”- quest’assordante pensiero e insalubre pratica di vita e…ahimè, quanto vorrei morir senza volerlo.

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