Gli avvoltoi

di fabio rocco oliva

Faceva caldo quel giorno, il sole picchiava forte su tutto il deserto, non un’anima, nulla, nessuno osava perdersi in quel posto e le poche rocce disseminate a caso trasudavano dolore, si lamentavano, così come gli avvoltoi in cielo. Già gli avvoltoi. Gli unici a restare in volo, ad abitare il deserto, a rendere movimento ad una fotografia infuocata. Il bisogno di cibo, di una carcassa su cui gettarsi e mangiare, questo e solo questo, era l’istinto che li costringeva a sorvolare quell’inferno. Controllavano il monte vicino al deserto, solitamente un buon posto dove sfamarsi, e giravano in circoli, veloci e affamati.

Nella città vicino al monte tutto procedeva come sempre: i mercanti urlavano la qualità della loro merce, bestemmiavano il sole per l’eccessivo calore e per distrarsi cantavano, facevano baldoria, bevevano qualsiasi cosa per rinfrescarsi. Le donne, invece, più caste e pudiche, trasportavano litri di latte fresco per i figli, lanciando un’occhiata alle cianfrusaglie sparse ovunque. Quei piedi scalzi alzavano polvere, molta polvere, perché la strada era soltanto sabbia e bruciava violentemente. Nessuno osava soffermarsi a lungo in un posto, il calore rendeva tutti stancamente frenetici, diventava un obbligo muoversi, una sopravvivenza forzata. Di questo sicuramente gli avvoltoi ne ridevano e volavano, volavano.

Alcuni, i benestanti del posto, erano riusciti a costruirsi dei giardini rigogliosi d’alberi e frutta, altri, i più furbi, potevano vantarsi d’avere anche un pozzo, estremo bene di lusso e se lo tenevano ben nascosto, come un segreto in casa, mentre fuori i cani s’accasciavano per l’arsura e avrebbero sbranato Pilato in persona per un po’ d’acqua. Ma non tutti soffrivano, non tutti affannavano, i bambini per esempio; quelli si trovavano una piccola stradina all’ombra, dove non era possibile alcuna attività, dove non si potevano guadagnare soldi, e l’unica cosa possibile era proprio quello che facevano i bambini: disegnare con un ramoscello misteri d’ortografie, accovacciati l’uno vicino all’altro. I loro genitori che non avevano meglio da offrire, erano costretti a tenerli per strada, e intanto sognavano giardini, ci figuravano la vita in un giardino. Alcuni ne avevano visto uno e raccontavano storie meravigliose: amanti sotto l’ombra di un albero, uomini a discutere d’affari, banchetti e musica. Chiunque ne avesse avuto uno lo avrebbe reso, di certo, il giardino più bello di tutta Gerusalemme.

Intanto, gli avvoltoi non ne volevano sapere di scendere, non vedevano nessuna carogna da mangiare e il monte, sorreggeva solo croci vuote e nient’altro. Allora non restava altro da fare per loro che volare e osservare i giardini, e attendere il momento migliore. Sapevano benissimo, però, di non potersi aspettare un buon pasto da tutti i giardini, infatti, uno solo, proprio ai piedi del monte delle croci, non offriva nulla di buono: solo foglie secche e alberi morti. La vita, per loro, come ogni abitante della città di Gerusalemme, era altrove, non lì. Nessuno osava soffermarsi e a nessuno saltava in mente di scoprire chi abitava quel giardino. I bambini erano stati educati a starne alla larga e a non curiosare, così come i mercanti avevano perso la speranza di poter vendere qualcosa in quella dimora abbandonata alla decadenza. Tra le foglie secche, la polvere e il grigio consumato delle mura, qualcuno nonostante tutto ci viveva.

C’erano pezzi di legno abbandonati e sparpagliati ovunque, chiodi arrugginiti, martelli rotti, tutt’intorno ad una sedia in legno, l’unica cosa sulla quale valeva la pena soffermare lo sguardo, poterci immaginare qualche forma di vita, una storia, un’avventura. Ma solo su quella sedia, perché una donna avvolta in una tunica nera, composta, con la testa china racchiusa in un cappuccio anch’esso nero, sedeva come fosse una statua. Sembrava guardasse le proprie mani che aveva strette tra le cosce, mentre numerose foglie secche le circolavano intorno. Non poteva uscire dal quadrato del suo giardino e tuffarsi nelle aggrovigliate strade della città di Gerusalemme, era costretta in quell’angolo di mondo dal Monte Calvario, immenso che le sbarrava la strada verso il deserto. Il suo ricordo s’era trasformato in quella montagna, ed era diventato allo stesso modo pesante e immutabile. Lei sembrava non curarsi di nulla, nemmeno degli avvoltoi. Prese a stringere la veste con le mani tremanti, osservò quelle mani. Adesso erano rinsecchite, le vene gonfie rendevano la pelle carta stropicciata, le unghia rotte erano cadenti. Se le guardava adesso ricordandosele bianche e splendide. Non seppe che farsene di quel ricordo e lo accantonò, quelle mani le dicevano che il tempo era trascorso e ne era trascorso tanto dopo quel maledetto giorno e a lei spettava solo l’impossibilità di muoversi e l’attesa, seduta su quella sedia che era l’ultima cosa rimasta integra dopo che le guardie di Pilato entrarono in casa sua a distruggere ogni cosa. Lei era proprio su quella sedia quel giorno, come lo era adesso, e assistette alla furia delle guardie romane incitate da un folle centurione.

Quel centurione era Marco l’Ammazzatopi, un gigante, grasso e con il volto sfigurato dagli innumerevoli combattimenti nelle arene contro i leoni, e per i campi di battaglia contro altri ammazzatopi. Cicatrici e bestialità avevano reso quel centurione un sadico, disinteressato al fine delle sue incursioni, interessato soltanto alla scelta della modalità più perversa per distruggere tutto ciò che gli capitasse sotto mano. Era una furia, un demonio in terra. Quando entrò nel giardino, quel giorno, non badò a nulla solo a distruggere e a calpestare ogni cosa, dimenticandosi di dover trovare qualcosa, qualche prova per incriminare il figlio di quella donna. Lei restò seduta su quella sedia per tutto il tempo del saccheggio e oltre, paralizzata, tranne un giorno o due: quando seguì il figlio verso la lunga via che porta al Calvario. Solo quel giorno s’alzò e valse per tutti gli altri giorni non vissuti.

Si promise di non mettere più piede per le strade di quella maledetta Gerusalemme, non voleva correre il rischio di ripercorrere quella strada. In realtà ogni strada le ricordava quel giorno, ogni persona era un’unica persona, anche i bambini, tutti indistintamente erano la folla indemoniata che quel giorno insultò suo figlio e lo portò al monte delle croci. Era stata in giardino a sistemare, a rassettare le ultime cose, a cibare le colombe, seduta su quella sedia. Adesso il sole trapassava il vetro delle finestre, segno che s’avvicinava il pomeriggio, e la donna si sentì anche lei trapassare lentamente dal sole, da quella luce. Ebbe caldo, ma tutto svanì nel nero della sua tunica.

Poi, improvvisamente, gli avvoltoi cominciarono a folleggiare per tutta Gerusalemme, urlando e scalpitando, avevano fame e non avrebbero atteso a lungo. Un vocio infernale s’accumulava per le strade, i bambini furono nascosti, i mercanti chiusero in gran fretta le botteghe, i musicisti misero a riparo gli strumenti e tutti corsero verso la strada principale che si distendeva lungo tutta la città per giungere al Monte che inghiottiva il corpo d’Adamo (questo lo ricordavano solo pochi anziani, per tutti era il Monte delle Croci). Le voci entrarono nel giardino della donna riscaldandola più del sole, facendole ribollire la sensazione di ricordi assopiti nella sua solitudine. La gente correva ed urlava per le strade, ognuno voleva essere in prima fila per assistere allo spettacolo, gioivano, si muovevano con enormi otri di vino e quelle voci… erano troppo assordanti e stridule: non aveva senso suonare, alla musica ci pensavano i romani con il loro metallo, le pinze, le fruste.

Tra la folla spiccava l’Ammazzatopi, con la lancia, il martello e un mantello rosso sangue e rideva come un ubriaco. Tutti lo incitavano, lo conoscevano ormai da anni, era temuto e rispettato in tutta la città e nei dintorni: al suo passare più timore che se passasse Pilato o Erode. Era decisamente l’attrazione di quel giorno di festa. Giganteggiava su tutti, col suo cavallo bianco e il gatto nero. A caso lanciava frustate, sputando addosso a tutti. L’abitudine a quella figura non aveva affievolito il timore della folla ma anzi lo accresceva, ora la curiosità divampava, tutti volevano vedere adesso cosa si sarebbe inventato quel centurione. Pensavano, dopo l’ultima volta che lo avevano visto all’azione, che gli era impossibile progettare qualcosa di più orribile. Ma Marco l’Ammazzatopi riusciva sempre a meravigliarli tutti con estrema facilità. L’inseparabile gatto nero poi… grosso e con due occhi di brace. Quello faceva più paura d’ogni altra cosa. Correvano storie magiche su quel gatto che scendeva dalla sella e che portava al padrone, ogni volta che tornava, sempre qualcosa di diverso e soprattutto d’appetitoso. Le vittime preferite del gatto erano gli storpi, perché sapeva che non potevano sfuggirgli e che quindi poteva giocarci come voleva. Così se ne stava sul cavallo e osservava i condannati, ma a loro non faceva nulla, quelli spettavano a Marco e agli altri soldati, lui si consolava con la folla.

Gli avvoltoi giravano in cielo sempre più nervosi, odoravano cibo. La folla urlava e per compiacere il centurione ondeggiavano il pugno in cielo, infilando il pollice tra l’indice e il medio. Questo gesto i condannati lo vedevano e se ne vergognavano, trattenevano le lacrime ma il sangue colava a fiotti, mentre la folla urlava a perdifiato per tutta Gerusalemme, cosicché ogni angolo era raggiunto da quelle urla disumane. La donna ebbe un tremito, aprì gli occhi di scatto e pianse.

Quella donna piangeva sulla sedia e da lì poteva vedere benissimo i volti di tutta la folla che incitava, poteva vedere la polvere della strada alzarsi, e sapeva cosa gli avvoltoi aspettavano. Riusciva a sentire la folla urlare, capire a che punto fosse la processione, in che angolo della città si trovassero e cosa sentivano i condannati e le famiglie. Pianse lì, adesso, su quella sedia come nel giorno bestemmiato ogni istante nei suoi ricordi. Come ora piangevano altre donne che salivano a monte e s’accovacciavano ai piedi della croce. Lei pianse sul Calvario tutto il giorno soffrendo il caldo, maleodorando, infastidita dai commenti perversi delle guardie, e si dannava per suo figlio sulla croce. Adesso il cielo s’imbruniva, qualcosa lasciava credere che potesse piovere e un vento s’alzava, non come quel giorno che la città era solo fuoco. Anche ora, come nel giorno della crocifissione di suo figlio, due donne erano sotto la croce centrale e piangevano la povertà, l’amore di dio, la gloria eterna, la ricompensa e la giustizia. A lei correvano lacrime su tutto il vestito e sul seno, inondando il giardino. Pensò di correre verso il calvario ora, ma la pioggia cadeva forte già da un pezzo e non se n’era accorta, e un gruppo di serpenti mansueti erano lì a sbarrarle la porta. Udì un urlo provenire dalle croci, un urlo di un crocifisso che la stordì e ricadde. S’era appena concluso tutto, nuovamente.

In fondo è solo una passione e nient’altro.

Pianse disperandosi sulla sedia e le lacrime coprivano tutto il giardino, le foglie galleggiavano sospinte dal vento. Le donne al monte si disperavano sotto la pioggia e i condannati calarono il capo. Il sangue cadde a terra ai piedi della croce e fu raccolto in un calice fatto subito sparire. Adesso gli avvoltoi diventavano nervosissimi e s’avvicinavano sempre più a quelle carcasse. Maria, una delle donne ai piedi della croce, corse via andando a rinchiudersi in un giardino, dove accovacciarsi e piangere e bestemmiare. Gli avvoltoi quel giorno mangiarono della carne umana dal sapore diverso, e sazi fuggirono verso il deserto, pieni di vitalità! L’altra donna stringeva ancora la tunica tra le mani e pianse lacrime più dure, le sentiva cadere sui suoi piedi e se li vedeva graffiati, erano dure e taglienti, erano pietre rocciose, mentre le ginocchia erano piene d’acqua, per la pioggia, per le lacrime. Anche Maria cominciava il suo pianto, adesso, forte, e per tre giorni pianse senza fermarsi come l’altra donna, sotto il cielo che nascondeva il sole e faceva cadere tanta pioggia. Le loro lacrime presero ad indurirsi e scivolarono nell’enorme masso che i soldati romani piantarono per chiudere il sepolcro dei figli.

Le donne non andarono mai lì a vedere quel masso, pesante e pressate. Il sepolcro era fuori città, dove si vedevano gli avvoltoi scomparire nel deserto.

Un soldato romano era seduto sul masso che serrava il sepolcro, aveva il compito di non permettere a nessuno di aprirlo. Restò ad osservare a lungo tutta la città, immaginando cosa potesse succedere adesso dopo l’ennesima morte nella città santa di Gerusalemme. Si voltò e si rivoltò all’infinito, perdendo ogni volta pezzi del suo abbigliamento e di sé. Immaginava e fantasticava, rigurgitava ogni cosa quell’uomo su quell’enorme masso che chiudeva i morti. Lo accarezzava di tanto in tanto come a chiedergli qualcosa, come se fosse il teschio di tutti i morti del sepolcro. Lo sguardo proteso verso il deserto. Riusciva nel suo tacito lavoro di guardiano, a immaginare vivi tutti i morti, tendeva l’orecchio verso il masso e li sentiva sussurrare ad uno ad uno la loro vita. Non poteva alzarsi e fuggire era diventato lui stesso il masso e quanto dentro fosse conservato. Gli fu chiaro che avrebbe potuto correre all’infinito, ma non gli sarebbe mai riuscito allontanarsi dal minerale immobile. Calò gli occhi da qualche parte, arreso, e finirono per visionare che era solo una passione e nient’altro, che le donne non andarono mai lì a vedere quel masso pesante e pressante – Ammazzatopi – Adamo – maleodorando - gli avvoltoi - le croci - stringeva ancora la tunica tra le cosce - il gatto nero - mangiarono carne diversa - un soldato romano a pezzi.

Chiuse il quaderno che aveva avuto per tutto il tempo tra le mani, con forza. Di fronte a sé c’era solo deserto, sconfinato e giallo. Non c’era nient’altro. Io stesso fui Gerusalemme e Maria? Io stesso fui il Calvario e il soldato romano? E il masso e il crocefisso? Fui io uno degli avvoltoi? Sentì d’essere un enorme segno ortografico. Non ricordava assolutamente perché aveva quel quaderno tra le mani, era sicuro che un tempo erano solo fogli bianchi e nient’altro. Poi successe qualcosa che adesso non ricordava. Era pieno simboli che s’erano poi trasfigurati in immagini nella sua mente, s’erano trasformati in segni reali, s’era trovato egli stesso tra loro. Tutti i morti erano ancora conservati nel masso su cui sedeva e vi scorse altre infinite forme di vita, figure ignote e opache, mostri da fattezze reali. Tutti oscillanti, non fissi, solo ombre che avrebbero cambiato la forma in base alla scelta della luce.

Confusi i morti con i vivi, non li distinsi più. Da quel momento in poi ho sempre l’orecchio teso ad ascoltare le loro storie e a collegare i fili dalla memoria all’immaginazione. Quel masso sono io, e mi stancai d’essere un soldato romano. Vidi gli avvoltoi in cielo che mi offrivano le loro penne, così tesi la mano e n’afferrai una e l’osservai a lungo cercando di decifrarne la simbologia. Gli avvoltoi scomparvero nel nulla e non mi fu più possibile distinguerli con chiarezza, forse perché sono un avvoltoio anch’io, ho bisogno anch’io d’una carogna per poter vivere. Ma non me lo ricordo, non so dirlo con certezza.

Mi sono chiesto per secoli cosa avrei potuto fare con quella penna che gli avvoltoi mi donarono, ma di fronte a me c’era solo il deserto e nessuno mi poté dare una risposta. E per molto tempo ho osservato il deserto che mi inglobava e m’assaliva, non capii che cercava di parlarmi. Ero solo, non c’era uno specchio in cui guardare me stesso dall’esterno. Allora fui costretto a convivere con il deserto. Aprii il quaderno, e vidi che era lo stesso simbolo di quello che avevo di fronte, e vidi ponti e nodi attraversare tutto lo spazio intorno a me, dispiegandosi tra il deserto e il quaderno.

Mi accorsi che avevo dimenticato di ascoltare le voci all’interno del mio masso, così dopo secoli e secoli decisi di riascoltare il mistero degli abitanti del masso. Riguardai la storia della crocifissione e mille voci, di me e dei morti, mi dipingevano ponti e nodi. Mi rallegrai della potenza dell’immaginazione.

Mi ritrovai, mio malgrado, dopo ancora molti secoli, impedito nei movimenti per aver accumulato, questa volta, troppi nodi e ponti. Decisi di scioglierli e cominciai a catalogarli, a cercare di afferrare qualche nodo e liberarlo. Li tastavo e non potevo fare a meno di constatare che erano lì da un pezzo, e che adesso avevo deciso di renderli visibili. Mi trovai con uomini illustri e famosi, mi imbattevo in discussioni animate sul destino di altri uomini che volevano entrare in altri destini. I ponti nel deserto mi consentivano di viaggiare velocemente e agevolmente nel tempo e nello spazio, facilmente mi spostavo dall’america latina all’egitto, e reputai opportuno creare un punto fisso dove poter cominciare a catalogare i nodi del tempo. Mi recai a Betlemme e lo scelsi come punto 0. Decisi la nascita di un bambino avvolta nel mistero come punto di riferimento, v’inventai una grotta, lo feci morire dopo non molto tempo. Mi era stato necessario solo per trovare un inizio, poi mi figurai un masso e il destino di mille storie che erano fili intrecciati e ponti. Mi fu così possibile, grazie al punto 0, muovermi con un punto di riferimento. Ricordo che mi rallegravo per aver inventato una storia che potei datarla lunga un paio di millenni.

Vagai nel deserto, ancora con il mio masso, a cercare di sciogliere nodi e vedere dove portavano i ponti. Rividi gli avvoltoi e mi ribadirono che la loro vita era legata alla morte e al dolore. Li rividi mangiare ancora dei morti, e rividi ancora donne piangere. Non compresi subito perché le forme di quella processione erano diverse dalla prima processione a cui assistetti, eppure tutti gli elementi erano uguali.

Intesi tutto e andai lontano. Vagai ancora, e nel buco che avevo fatto al mio masso (ricordo che era un secolo in cui non accadeva nulla, ero annoiato e arrabbiato e me la presi con il masso), vidi quella storia trasformarsi infinite volte. Si allargava e restringeva, mutavano i nomi, mutavano i luoghi. I ponti erano sempre più agevoli e potevo muovermi ancora con velocità tra un secolo e l’altro, tra una regione e l’altra. Mi accorsi che ormai i miei piedi giravano in circolo, che avevano sempre girato in circolo. Non c’era via d’uscita, nonostante i secoli passassero e mi muovessi su infiniti punti di una circonferenza, non ero mai riuscito a poggiare i piedi sullo stesso punto. Tutti i punti hanno lo stesso odore e la stessa consistenza, lo stesso colore e la stessa storia, tutti i punti sono diversi tra loro. Esistono infiniti punti, infinite combinazioni di punti nella circonferenza del deserto, mi risultò impossibile distinguerli. I nodi e i ponti mi apparvero come punti della circonferenza.

Mi sedetti, stanco di immaginare e cominciai a ricordare tutto quello che avevo fantasticato. Ero solo e ciò mi spaventò, mi sentii solo e non vidi più altri segni ortografici per molti secoli. Allora sul sasso mi ritrovai ad osservare il quaderno e la penna d’avvoltoio. Volevo fermare i segni sul quaderno per paura di morire, per potere costruire lo specchio in cui osservarmi. Allora lasciai scivolare la penna d’avvoltoio sul bianco del foglio, ma non succedeva nulla, si intravedevano solo delle strisce trasparenti. Provai e riprovai innumerevoli volte. Durante i lunghi viaggi tra una regione e l’altra, tra un secolo e un altro secolo, avevo smarrito l’inchiostro. A dire il vero lo accantonai in un qualche luogo in un tempo che non posso ricordare.

Mi guardai intorno e c’era il deserto. V’immersi la penna e vidi che colava inchiostro. La storia è una combinazione di segni ortografici, di ponti e di nodi. Ogni attimo è una storia di segni che si costruiscono. Ogni segno che rappresento è il vestito di un’infinita serie di nodi e ponti che abitano il deserto. Il deserto è popolato d’infinite combinazioni di ponti e nodi.

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