Alle 6:44

di delio salottolo

I

‘Ma che bel pezzo di figliola’ gridava grasso il dott. Tronchese.

Il suo volto molle e burroso si contraeva in continue smorfie. La stanchezza e la libido lo fiaccavano e lo rendevano ancora più indecente. Un personaggio così in vista, un uomo che -permettete- si è fatto da sé ridotto così: con la camicia sbottonata, i capelli scompigliati. Poche persone possono dire di averlo visto in quello stato indecoroso. Lui, il dott. Tronchese, che amava apparire, che amava la posizione che si era conquistato con una volgare ma educata ascesa sociale. Lui, il dott. Tronchese, grasso e simpatico, si trovava in una situazione inaccettabile. Si trovava a camminare in una strada che sicuramente non aveva mai visto prima, ma nonostante ciò gli era realmente familiare. E poi vi era quella fanciulla, delicata e gentile, eterea e sorridente che sfuggiva con una grazia morbida e vellutata alle avances; non che ci volesse molto a sfuggire a quell’uomo grasso di sé e pieno di ogni ingordigia. Sfuggiva ma con un fare particolare. Faceva avvicinare l’esimio, poi con uno veloce scatto felino si allontanava nuovamente. Tutto ciò non faceva che aumentare la libido del nostro dottore. Che affannava e sudava; era costretto a fermarsi, a riprendere fiato. A permettere al sangue di fluire tra i vari cumuli di colesterolo che ingombravano le vene e le arterie.

La situazione, quindi, era strana. E, chiariamoci, un personaggio del ‘calibro’ del dott. Tronchese non si sarebbe mai potuto permettere di inseguire una fanciulla tanto delicata. Era solito, però, puntare i fari sulle donne esotiche e sempre straniere che era solito scegliere su uno dei marciapiedi da lui preferiti. Il palcoscenico dell’amore aveva per lui un volto esotico e illuminazione da bidoni bruciati.

Il dott. Tronchese non si sarebbe messo ad inseguire quella delicata fanciulla, o a gridare in quel modo se non fosse stato in un sogno. Il suo rango conquistato con tanto ‘sudore’ glielo vietava. Di fatto, quindi, il dott. Tronchese si trovava a letto ma sognava una bella ragazza.

‘Vieni qua’ continuava volgarmente.

E rimaneva stupito del fatto che quella donna non avesse un viso definito o perlomeno lui non riusciva a fissarlo e a descriverlo. Notava solamente un ghigno non feroce forse appena malizioso; poteva sembrare anche una provocazione. Prese a correre. La inseguì. Per molte strade. Alcune gli sembravano quelle che era solito percorrere con la nonna, quand’era bambino. La nonna, forse l’unica donna che lo avesse amato. Altre gli ricordavano paesaggi dell’adolescenza, altri viaggi fatti nella maturità. E le strade che attraversava si trasformavano di passo in passo. Veniva scorto da volti familiari ed unici. Gli si paravano dinanzi persone che aveva incontrato nella sua vita. Colleghi, amici, in generale tutte le persone che aveva costantemente tradito. Il sudore lambiva la sua fronte. Il cuore sembrava affaticato. Lei sembrava ora più vicina, ora irraggiungibile. Con un ultimo sforzo, però, la raggiunse. Il cuore e il pene sembravano stare per esplodere. Le strappò quel velo di dosso e rimase violentemente colpito dalla perfezione di quei glutei marmorei.

Il cuore del dott. Tronchese si fermò dopo un lungo sussulto alle 6:44 del giorno 3 novembre 2004.

‘Cosa mi succede? Non riesco a respirare’. Il poverino gridava aiuto.

Credeva di gridare aiuto. Lo sforzo alla ricerca della bella donna, quella corsa affannata, avevano debilitato il suo cuore malato. Cominciò a piangere. Non riusciva a capire se ciò che provava era del sogno o della realtà. Sentiva quel calore feroce salire dal braccio sinistro e invadere senza pietà il lato del cuore. Non rivide la sua vita come in un film. Assolutamente. Ripensò a quegli occhi che stroncarono ogni sogno da adolescente, ripensò a quello che aveva fatto per quarant’anni. Fu un attimo. Il pensiero fu capace di dilatare il tempo e i particolari si fecero più chiari. Il cuore cominciava a fermarsi. Il cervello non era più irrorato continuamente dal sangue che pretendeva. Il pensiero si annebbiò. –…Ho gettato tutta una vita a fare l’imperatore in un misero sottocentro C.A.F….-. Questo, forse, fu il suo ultimo pensiero. No: fu la consapevolezza certa ed ineluttabile che la morte è il punto in cui il discorso si chiude definitivamente. Aveva provato ad allungare quell’ultimo attimo attraverso il pensiero. Non vi era riuscito. Non aveva la forza mentale, non aveva grandezza d’animo oppure soltanto un ricordo che gli permettesse di dilatare l’ultimo attimo prima della caduta. La sua vita stava finendo quel giorno. Inesorabilmente. Senza pietà né rancore. Non chiese perdono per i suoi peccati. Non era stato neanche un buon cristiano. Era convinto, di quella convinzione ipocrita che quella donazione annuale gli bastasse per ascendere all’Empireo. In realtà non si era posto mai realmente il problema. Poverino, morì triste e desolato, come aveva vissuto. Almeno non ci aveva mai pensato. Ora era certo. Era tutto finito. Tutto.

Ed il buio e l’assenza di tempo e spazio lo liberarono da quel fremere ridicolo e convulso che è il corpo che lotta con la morte. E la sospensione della caduta lo avvolse definitivamente senza più alcun appiglio.

II

-Poco fa erano le 6:44. Posso rimanere a letto altri venti minuti. Cosa stavo sognando? Ah sì, il fiume. Che bello che era. E poi, il corso Vittorio Emanuele. ‘Bisogna girare il secondo fiume a destra’. Ma chi è che parla così?- ‘Nuovo agguato di camorra. Il pregiudicato Salvatore Masiello è stato raggiunto dai sicari mentre si recava in pizzeria con la moglie nel rione Scampia…’-Perché accendono la radio di notte?-

Driin. Driin.

Lei si alzò dal letto distrutta. Vide l’orario. 7:20. Capì che doveva prendere il caffé. Era incapace di intendere e di volere. Fortunatamente lo trovò sul tavolo già pronto. Caldo ma non bollente. Un sorso lento e un altro veloce.

Di corsa in bagno.

Quello era il suo momento unico. Era capace di fissarsi per dieci minuti allo specchio. Cercando chissà cosa là dentro. Era il suo momento unico, non voleva essere disturbata da nessuno. Attendeva la mattina soltanto per quel gesto di intimità con se stessa. -E’ il momento di stare sola con Io-. Pensò, poi, a quel sogno nebuloso che l’aveva accompagnata per tutta la notte. A quel fiume. Forse aveva sognato anche il dott. Tronchese, il capo, ma non lo ricordava. -Dovevo sognare pure quel bastardo. Che schifo di mattinata-.

Corse a vestirsi.

‘Dov’è il pantalone?’. –Ah sì, a lavare.-. Metto quest’altro. Il reggiseno. Quello di ieri. -Non ho tempo per cercarne un altro-. Le calze. Le scarpe.

Prese la borsa e le venne a mente di non essersi truccata. Non fa nulla. Tanto…

Da lontano vide arrivare la cumana. E con l’ultimo scatto riuscì a raggiungerla un attimo prima che si chiudessero le porte. Quella delle 8 poi. Fortunatamente sapeva che dal terzo scompartimento scendevano tutti i ragazzini che andavano a scuola. Preso il posto si dedicava alla lettura del suo romanzo. Qualsiasi fosse era un’immersione lontano. Dai rumori. Dalle confusioni. Dalla puzza. Dalla sporcizia. Dalla negligenza. Dalla tristezza. Dalla ripetitività. Dalla corsa. Dalla cumana.

Arrivata in ufficio come sempre in anticipo accese il computer. E si dedicò alle sue telefonate di routine. Chiamò quella che Lei definiva la Vecchia. Quest’ultima avrebbe potuto sentirsi viva soltanto parlando dei suoi dolori e dell’avvicinarsi della morte. Avrebbe potuto sentirsi viva soltanto raccontando della sua solitudine.

Chiusa questa pratica si dedicò alla colazione.

Erano soltanto le 8:19. L’importanza di questa colazione era che –ognuno ha le proprie abitudini- la portava ad andare in bagno. Maniaca dell’igiene eseguiva una pratica complessa. Salita con i piedi sul bordo della tazza, confidando nei muscoli delle gambe oramai potenziati da anni di allenamenti nei bagni pubblici, e dopo sforzi sovrumani, e dopo aver osservato la propria faccia nello specchio di fronte diventar purpurea, finalmente tornava a lavoro.

Percepiva un’aria strana in giro. Mancava l’Altra segretaria. Un silenzio irreale riempiva il suo ufficio. Era certamente presto però… Non ci badò più di tanto e si mise a computer a cercare lavoro tramite internet.

Si fecero le nove. –l’Altra sicuramente starà scopando col capo Perlomeno non si faranno vedere e sarò libera di non fare nulla oggi-.

Ed invece…

L’Altra entrò di corsa, con le lacrime agli occhi dicendo che il dott. Tronchese era morto per un attacco di cuore. Sembrava disperata.

-Lacrime di coccodrillo- pensò Lei. E si stupì di questo pensiero così volgare di fronte alla morte di una persona.

La giornata trascorse nella foschia più profonda. Non una parola le uscì dalla bocca. Non un pensiero davvero reale la sua mente costruì. Entrò in uno stato di torpore che durò esattamente quanto l’orario di lavoro. Benedisse il computer ed internet che le impedirono di pensare per tutta la mattinata.

III

Quel giorno all’uscita da lavoro non fece la solita corsa a casa. Quel giorno si sentiva stanca. Di correre. Troppo stanca per correre a casa. A riposare anche questo di corsa. Sarebbe potuta andare da Lui. Ma non ne aveva voglia. Non aveva voglia di dover fare qualcosa. Non voleva correre e non avrebbe corso.

I suoi passi attraversavano lenti la strada. Si meravigliava di quel suo incedere. Pensava. Pensava a quando era stata l’ultima volta che aveva avuto quella sensazione di leggerezza e calma. Pensava. Pensava a quanta era la velocità che apriva brecce nella quotidianità. Pensava. Pensava al dott. Tronchese e a quale era la smorfia nel punto di morte. O a come lo avessero agghindato per l’ultima apparizione in pubblico.

Cercava di ripercorrere con la mente tutto quello che aveva vissuto che in un qualche modo potesse riguardare la morte. Si rendeva conto che la morte era un qualcosa che Lei aveva sempre vissuto con dolore e partecipazione. Quando L’era morta la vecchia zia aveva sofferto e pianto come non mai. Ricordava quel senso di vuoto e distruzione, quell’infantile rivolta contro Dio e il destino che si erano prese quella persona amata. Pensava a tutto questo. Ma non comprendeva. Per il dott. Tronchese cosa provava? Oppure cosa era giusto provare? Oppure, e ciò Le faceva ancora più male, cosa era obbligata a provare?

Per la strada trovò un bar. Non l’aveva mai notato prima. Era un bar molto piccolo. Intimo. Uno di quei posti che non esistono finché non li si nota per qualche motivo. Uno di quei posti senza storia dove nessuno ci prende appuntamento, frequentato da qualche anziano che non sa come portare a termine il dovere quotidiano nei confronti della vita. Fissò al suo interno lo sguardo, decise di entrarvi per recarsi alla toilette. Poi, però, decise di sedersi a prendere un caffé.

Seduta dinanzi al suo caffé i pensieri le si affollarono nuovamente nella sua testa.

Provò un sentimento di piacere.

Il giorno successivo l’ufficio rimase chiuso per lutto.

In realtà come sappiamo fin troppo bene il lutto verso la persona scomparsa è l’ultima grande ipocrisia a cui dobbiamo affidarci. In realtà, purtroppo, non esiste più l’unicità della persona e del suo ruolo o funzione.

Ben presto sarebbe venuto un nuovo capo, che avrebbe svolto le medesime pratiche, avrebbe portato avanti nel medesimo modo il centro. Tutto sarebbe stato il medesimo di ciò che era prima e di ciò che sarebbe stato poi.

Pressappoco i pensieri di Lei dovevano essere questi.

-Pezzi di ricambio. Ecco cosa siamo realmente-. Pensava Lei che giaceva nel letto immobile. Erano le otto del mattino e Lei stava ancora a letto. Era tormentata da alcuni pensieri. La morte del dott. Tronchese aveva creato in Lei una strana sensazione. Comprese che alla morte non segue necessariamente il dolore. Non riusciva a spiegarsi la sua sensazione. Non poteva piangere, ma non riusciva neanche a gioirne realmente. E le immagini le si sovrapposero. Il volto grasso e ridicolo del dott. Tronchese si confondeva con il pianto dei suoi due bambini. Quei poveri bambini. Che potevano sapere e capire del padre! Il pianto infantile si confondeva con il tocco pesante e volgare della sua mano. Quella mano sempre pronta e attratta da spettacoli corporali. Lo aveva odiato in quel momento.

Doveva venirci a capo per poter essere realmente libera.

Alzò la cornetta del telefono e dopo una breve ricerca sull’agendina telefonica compose il numero. L’Altra, dopo un breve ma intenso conciliabolo con se stessa, decise di ridestarsi, e impugnare la cornetta non tanto per sapere chi fosse quello scocciatore, bensì per porre fine al petulante suono di quell’aggeggio.

IV

Si incontrarono in un bar.

Il bar fu scelto da Lei. Era il bar che il giorno precedente aveva manifestato la propria silenziosa esistenza e aveva accompagnato le sue riflessioni e pensieri. Era un bar, quel bar, realmente inesistente, frequentato, o per meglio dire abitato, da gente inesistente. Gli abitanti erano perlopiù anziani, esattamente gli stessi del giorno prima e del giorno dopo, che non poterono non accorgersi dell’ingresso di due giovani donne, vagamente in carriera, che erano indubbiamente una razza rara in luoghi del genere.

L’Altra, intanto, si guardava incontro e contraeva il viso al ritmo dei commenti borbottati dagli anziani. Si chiedeva come una donna del suo ‘livello’ potesse ritrovarsi in un luogo del genere. Con tutti i bar che ci sono a Napoli! E poi, l’altra cosa che non si spiegava, era il motivo di quell’incontro. Perché proprio Lei le aveva chiesto quell’incontro? Voleva guadagnarci da quella morte? L’Altra non aveva pensato a come girare a proprio favore quella situazione. Si erano sempre odiate. Erano entrate in quella competizione tipicamente femminile. Soltanto le donne riescono a gareggiare ed odiarsi a quel livello. Un rapporto vissuto e visto così dall’Altra. Lei, in realtà, non si era mai interessata più di tanto alla carriera; non sentiva dentro di sé l’idea che lo sviluppo dell’uomo era da considerarsi in base al successo; e che questo potesse giustificare qualsiasi azione. Per questo Lei stava male e non si sentiva adatta a nulla. Sentiva di vivere in disparte. Da sola. In un angolino buio. Cercava semplicemente un svolta, Lei, un lampeggiare nelle radura.

Si sedettero a tavolino.

La recita prese la solita piega. Un copione già scritto. Forse ormai nel D.N.A. di alcune persone. Piangere. L’Altra prese quasi immediatamente a piangere. Ancor prima che arrivasse il caffé. Questo le toccava fare. Non che non fosse sincera nelle lacrime. Una persona semplice piange facilmente, sinceramente e serenamente. La sincerità, però, ha un doppio aspetto; o, forse, esistono due tipi di sincerità. L’uno seppellisce l’altro. Quello più in superficie impone di piangere in determinate situazioni già codificate. E’ un discorso di apprendimento. Ci insegnano sin da bambini a piangere in un determinato modo e, per essere persone accettabili e amabili, in determinate situazioni. L’Altra non percepiva questa imposizione sottile e sedimentata nella sua persona; però si sentiva realmente infastidita per quelle ennesime lacrime che le dovevano sgorgare come da fonte sicura e non riusciva a spiegarsi il motivo. L’altro livello di sincerità, quello più profondo e nascosto impone una sofferenza più complessa e meno compiaciuta. E’ un discorso naturale. Impone un’acutezza di sguardi ed una reale debolezza che sono realmente rare.

La conversazione continuò ed abitò i luoghi più comuni. Scorazzava tra frasi già dette e sentimenti affettati. Lei si arrese. Aveva provato a porre il discorso in altra maniera. Accennò i propri dubbi. Sembrò soltanto cinica. Non se ne preoccupò per nulla. Fece domande, non ebbe risposte. Parlavano. Non dicevano. Non rimase delusa. Che importava a Lei?

A dire il vero la chiacchierata non durò neanche più di tanto. L’Altra iniziò a borbottare riguardo a quel bar, a quei vecchi che non facevano altro che squadrarla da capo a piedi. -Vecchi rattusi bavosi-. Ripeteva con una rabbia e una cattiveria che mal si addicevano a quegli occhioni tristi, lucidi e arrossati dal pianto continuo. Certo con quella minigonna, quel trucco pesante; in definitiva poteva anche venire meno in ghingheri per un incontro con una collega. Soprattutto se si parla di morte!, pensava Lei. Disse che doveva distrarsi e per questo aveva preso appuntamento con il fidanzato per andare a fare delle spese. Del resto non aveva un tailleur decente per l’inverno! Lo squillo del cellulare con annesso messaggio fu un suono di liberazione per Lei.

Si salutarono calorosamente.

Conclusione

Lei, invece, si recò sugli scogli di Bagnoli. Non che non si accorgesse della banale esteticità del gesto: seduta di fronte al mare. Soltanto così, però, si sentiva bene. Trascorse un bel po’ di tempo osservando. Non fissò nessun pensiero reale. Non provò nessuna sensazione in particolare. Godette della propria assenza di forma. Sentì un piacere sottile ed intenso. Brividi le correvano per il corpo.

Sorrise al vento e lanciò un’occhiata di intesa al mare. Il cielo si accese soltanto per Lei.

Tornò a casa per pranzo.

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