EDITORIALE

Letteratura e Potere

Il potere si serve ancora della letteratura per somministrare palliativi e prozac. Una tranquillità da psicofarmaci in maniera da fornire alla popolazione i limiti entro cui agire e le adeguate modalità di comportamento relazionale. Il potere va a braccetto con la letteratura ufficiale. La letteratura ufficiale è quella che attesta la sua esistenza burocraticamente: sono i testi registrati al tribunale, alla siae, sono le riviste appoggiate dai partiti, gli eventi culturali promossi dalle grandi case editrici. In queste manifestazioni è chiaro che ufficializzare l’esistenza di un lavoro letterario e trarne i vantaggi di visibilità, è una possibilità legata al danaro e alle conoscenze influenti. Pagare la pubblicazione del proprio libro alle case editrici è l’unica modalità possibile per entrare nell’élite culturale e divenire così scrittore ufficiale (speranza di ritrovarsi in un buon manuale scolastico). Il rapporto tra Letteratura e Potere è così calcificato.

Poi avviene una rottura. C’è una parte della letteratura che non rientra in questi giochi del potere ufficializzato e si muove nell’underground, spazio in cui si evidenziano i nodi attorno ai quali costruire e sviluppare la possibilità di una resistenza. Questo è lo spazio di LABAUT, lontano dalle logiche del potere economico e del potere culturale sacro. Questo è l’impegno di LABAUT ormai da tre anni, che striscia tra intersezioni inestricabili dei vicoli napoletani, legando la letteratura alla realtà esplosa.

È motivo di soddisfazione che, nonostante le difficoltà pratiche nel portare avanti questo progetto, molti poeti abbiano contribuito ad ampliare queste pagine. Si ringraziano le librerie che ci offrono lo spazio per esporre la rivista che oltre a Napoli ed Avellino, è presente anche a Cosenza.

LABAUT sarà presente ad OFFICINA 99 la sera del 15 febbraio per un reading su Allen Ginsberg nell’ambito della manifestazione nazionale BHAP (beat, hippy, autonomi, punk).

Le pagine di questo numero sono imbrattate delle tavole favolistiche di Gaia Guarino che ha curato anche la copertina, e degli schizzi minimalisti dovuti all’inossidabile verve satirica di Lino Foffano, artista poliedrico.

L’inquietudine della parola

di Fabio Rocco Oliva

Quando la forma non ha più la forza di creare: questo lo scacco dello sperimentalismo - la forma diventa prigione della parola, della scrittura.

La parola è la manifestazione della realtà degradata.

Non solo.

C’è disperatamente qualcosa di altro: la realtà disgregata è la parola stessa; è l’inquietudine della parola.

Per le strade, per i vicoli, per i palazzi. Toccare le crepe, un mutilato o deforme gettato a terra, lo sbandamento di un ubriacone, di un pazzo annichilito nella fossa della folla. Allora queste immagini si confondono nella disgregazione urbana, si frammentano in schegge marginali gettate a caso tra l’acciottolato, dove l’altro tira su e va avanti.

E questi corpi gettati, le crepe mute dei palazzi, l’immobilità del Vesuvio sono l’inquietudine della parola. Sono la parola stessa che si manifesta nella scrittura in maniera frammentata e disgregata, alogica – schegge che schizzano e si urtano e s’afflosciano nella loro solitudine di frammenti.

Per le strade:

Dove il sistema politico e morale seppellisce il malessere dell’uomo contemporaneo negli angoli marginali delle strade: angoli che sussurrano invece di urlare (il mormorio delle frammentazioni penetra nelle vene languidamente e lascia un singhiozzo dietro la spalla che perseguita la penna). Il sistema politico e morale lascia il malessere negli angoli delle strade; il malessere che vediamo ma non tocchiamo direttamente, esposto in vetrina tra le vetrine dei negozi di abbigliamenti costosi; lo annusiamo, sfiorando da lontano il corpo esploso dell’uomo contemporaneo.

È ancora la chiesa, è ancora il sempre presente fascismo che indossa maschere diverse, l’ignoranza, l’intellettualoidità, la fede nella mitologia, nell’impresa dell’eroe: la fiducia, la speranza di qualcosa di epico. Questi mostri formano il corpo assente: un’idea organizzativa della massa, perversa, perché non più concretizzata in un corpo fisico come un dittatore o forze armate, ma nascosto e infiltrato nella banalità del malessere quotidiano. Il corpo assente è il vuoto tra il passante e il mutilato gettato per le strade: non toccare il disfacimento del corpo ma vivere quel corpo in rovina nell’incessante e banale quotidianità del malessere. L’eterna ripetizione della sentenza.

E questi corpi gettati, le crepe mute dei palazzi, l’immobilità del Vesuvio sono l’inquietudine della parola. Sono la parola stessa che si manifesta nella scrittura in maniera frammentata e dispersiva, alogica

La parola è la manifestazione della realtà degradata.

Non solo.

C’è disperatamente qualcosa di altro: la realtà disgregata è la parola, è l’inquietudine della parola.

LA SCRITTURA E I DISPERSI

di Delio Salottolo

Sì, la scrittura è proprio uno strano strumento.

Osservo: turbe di dispersi che invadono le vie della città e non sfiorano i corpi degli altri con lo sguardo o le mani ma occupano territorio invalido e attraversano traversie opache e silenziose.

Che cos’è, allora, la parola (strumento invalido dello scrittore)?

La parola è un dono divino e verticale della società.

Questa libertà, però, non appartiene a chi marcisce nei mercati silenziosi dell’esclusione.

Nella scrittura, allora, è presente un pungolo e una posta in gioco.

Osservo: una donna che dorme alla stazione e riempie la notte con un canto di antica melodia che fuoriesce dal piumone sporco, un uomo, caduto da uno scoglio, che ora rincorre se stesso tormentando il pene in pubblico, una donna di grassezza paesana che chiede a tutti di far l’amore con lei e si piscia addosso, un uomo fuori al cimitero con tre cani che ha fondato tutte le banche d’Italia.

Qual è il pungolo del brancicatore di parole?

Annullare la propria distanza dalle cose, afferrare in un caldo abbraccio la realtà orizzontale, usare il metodo Stanislavskij per fingere e dissimulare, latrare schemi di parole contro edifici ben costruiti.

E la scommessa?

Perdere l’Io e trovare l’Altro. Sorridere agli esclusi e iniettarsi poche gocce del loro dolore.

Bisogna, allora, percepire la scrittura come autoesclusione e tensione tra interno ed esterno.

Osservo: Plebe! Plebe! Il vecchio allarme risuona nei ghetti abbandonati di Scampia e qualcuno vocifera di sottoproletariato e intuizioni sociologiche si sprecano e si rincorrono nel groviglio incolore e senza parola. Plebe! Plebe! L’allarme richiama all’antica lotta pretoriana e c’è chi simpatizza per l’esclusione e per la sua forza di resistenza alla Legge e alla Norma. Plebe! Plebe! E questo nome è quello più indicato. Le lacrime attraversano le guance di chi prova compassione e pietà per questi viaggiatori dell’insensatezza.

In cosa consiste la tensione?

Percepire la linea d’esclusione che separa e costituisce, ascoltare i richiami bestiali dell’escluso, aggirarsi continuamente nei pressi del solco e provarne attrazione profonda.

Cosa deve fare di se stessa la scrittura?

Modellare parole e coordinamenti neuronali, assicurare il proprio fallimento nell’attuazione della comunicazione, raggiungere persone e angosce, guardarsi allo specchio e sorridere di se stessa, camminare masturbandosi nel tramonto dell’Occidente.

C’è bisogno ancora di una letteratura-proiettile, ovvero militante.

NAKED*

di Gianluca Paletta

Un tempo dicevo “ora comincia il giorno”

“Rastrellato dall’ultimo incubo”

Così mi sembrava che blaterasse il ferreo corrimano,

Sui quali sbronzo mi apprestavo a salire..

Ora non basta osservare tale squallore,

Non basta scriverci sopra delle righe, non basta

Raccontarlo, non basta traversarlo del tutto…

Non basta nemmeno avere scampoli di tenerezza…

Ci vorrebbero lune differenti

Per prendere tutto dal verso giusto.

Ma cosa se non questo squallore

Che mostra a me stesso una infamante domanda

Come a dire…cosa cazzo ci fai qui?

Una domanda…

Morta nel buio delle tombe,

Trasformata a volte

In ciò che un tempo

Aveva l’aspro sapore di un corpo,

e vermiglie sembianze del sangue…il suo respiro….

Oggi…raccoglie ombre dal buio.

Come spesso accade,

….sono qui

Ad aspettare la sua pretenziosa favilla

Che dall’oscurità prevarica il mio affanno,

lui ne è certo,

Perché da sempre

aspetto una sua domanda

E delle acute verosimiglianze.

È vero…un tempo dicevo “ed ora comincia il giorno”

I netturbini sulla strada,

il vecchio barbone buttato un terra, storpiato dalle

veglie,

braccato nella morsa di una conversazione,

sbrodolava alcol dagli occhi.

Dicendomi “mio padre è belga e mia madre e italiana”

Penetrati dall’odore di marcio, le vitree pupille…

non c’era niente che mi somigliasse…

nessuno che stringesse tra le mani

lettere di fortuna o fogli lasciati incustoditi

ancora straziati da tante mani incapaci

e tante voci funeree…

solo il discreto sentore del buio,

che da li a poche ore sarebbe stato

ricacciato fuori,

imbevuto dalle onde.

Strenuo e provato….immobile e pensoso, sulla sedia del povero commediante…

Un tempo dicevo anche “il buio mi sta dando addosso”

un tempo logoravo la mia stessa immagine

per giunta mai riflessa dal tempo,

estratta con forza dalla luce radente,

un tempo dicevo il buio mi sta dando addosso

per tanta merda e tanta sofisticatezza,

per tanto acume nello stomaco…come

Stourley Cracklite* che dalle budella in cancrena,

scorse tra le forme di Etienne-Louis Boullèe sia l’amore che l’inevitabile morte.

Un tempo dicevo cosa mi sta succedendo,

Per delle lacrime gettate invano e un cuore a volte

troppo stretto a gli occhi e alla bocca….

e quando succedeva uscivano fuori parole canterine ancora troppo lontane dall’uomo

…magari….pensavo di poterne accudire tante…

Ancora troppo ingenuo…per scomparire

Dietro una frase tortuosa e poco incline

Al colore della terra.

…Ora non posso che vedere quel uomo

posare le sue corpulente radici,

raccattare briciole dal piatto

spiegazzare un libro e dire “ed ora che la notte ancora arde in cielo

cosa cazzo ci faccio qui”

a tingermi ancora di bianco

a prolungarmi ancora in vecchie solfe

da rognoso acquitrino,

avevo tentato di raccapezzarmi in piccole strofe da

urologo strafottente,

grandi parabole chiuse nel ferreo mordente…

ed ora invece torno a bruciare il mio amaro singhiozzo,

a torcere il mio sguardo

a rammaricarmi di vecchie storie da circo polveroso

mio dio come siamo poveri di storie

e vecchi di mille anni

quando narriamo le nostre vicende

* Dal film di Mike Leigh “NAKED”

* Dal film di Peter Greenaway “Il Ventre dell’architetto”

SPERMACETI

di Fabio Rocco Oliva

La spazzatura riempiendo le strade della provincia nord di Napoli e la puzza entra nei cappotti, sulla pelle, nei discorsi della gente, nei monologhi solitari di Spermaceti per le strade della periferia la sera vagabondare, durante il giorno di mal di stomaco camminando con le mani a premere la pancia mentre lo stomaco si contrae ad ogni passo e piega la schiena cercare nella spazzatura qualcosa, qualsiasi cosa da poter prendere e mettere sotto il cappotto stringendola e andandosene in giro mettendo le mani su un cassonetto e si piega a vomitare e il vomito gli si rovescia sulle scarpe sul cavallo dei calzoni e una mano sulla fronte.

L’incanto dell’immobilità. Le vie sono vuote, lunghi viali di solitudine e immobilità - la provincia nord di Napoli a notte fonda. Case su case, palazzine di mattoni e antenne satellitari. Un uomo dell’est ubriaco è al centro di una lunga strada dritta ed urla e i fari delle macchine gli sfiorano le braccia. L’incanto dell’immobilità.

Zoppicamenti e sbandamenti e Spermaceti afferra le pietre delle mura della fabbrica della RAMOIL a tavernanova, fabbrica di gas, di chimica, sgrava bambini di leucemia oltre il ventre della madre, fabbrica nascosta nella provincia e fumate continue di gas grigi e neri e le luci gelide dei fari della fabbrica – metallo e tubi grigi si attorcigliano - e Spermaceti sbanda zoppica afferra le pietre del muro per non perdere l’equilibrio e allora si ferma in un punto qualunque si cala i calzoni perde le brache s’accovaccia come una gallina che sta per fare un uovo e le feci liquide allagano l’asfalto rapide (la fronte e il sudore) e schizzi di feci sulle brache e respiro affannato (sudore e febbre).

L’incanto dell’immobilità. L’entrata della ferrovia sorregge la punta del vesuvio e guarda i disperati gettati nell’acciottolato e nelle lamiere della piazza dove Garibaldi in pancia grossa supera i disperati gettati nell’acciottolato tra lamiere e fumi e prostitute e spinge l’occhio verso l’ingresso della ferrovia che regge la punta morta di un vesuvio. L’incanto dell’immobilità.

Il sudore freddo sulla fronte si secca velocemente sulla pelle che diventa di colore verde e la pelle rilascia un puzzo assordante che si mescola con la puzza della spazzatura che straripa dai cassonetti attraverso i quali Spermaceti ancheggia e si dimena per poi proseguire verso altri cassonetti controllando tutti i cassonetti con la febbre addosso e crolla - il colera - alla fine crolla su una panchina verde allungando il corpo e subito contorcendolo per gli spasimi delle feci liquide che s’afflosciano nei calzoni.

L’incanto dell’immobilità. Le puttane di porta nolana occhieggiano e fumano e hanno i fianchi e i seni grossi sotto la porta della città e folla di gente, folla di uomini e donne e un gruppo in cerchio e in silenzio intorno ad un extracomunitario lo cacciano dalla porta con schiaffi e calci denti rotti e sangue dalla tasta, nessuno dei criminali urla. Mezzogiorno. La folla e le puttane di porta nolana. Le sigarette e cataste di vesti e pesce. L’incanto dell’immobilità.

Spermaceti barcolla con i calzoni sporchi e la febbre a premere la pelle, le tempie e flussi di sangue pressano e alla fine s’accascia sulla panchina del cimitero di poggioreale di fronte allo stazionamento dei tram: fuoco verde, fuoco azzurro, fuoco bianco crocefisso in metallo di cristo con braccia allungate e pollice di donna vecchio e rinsecchito palparlo e strofinare il membro oltre la tunica esplode in pezzi di carne e sangue e vampa rossa, vampa viola, abbaglio blu d’acqua dentro il crocefisso galleggia verticale con la testa sulla superficie dell’acqua cielonero annaspando – la panchina gelida di vernata, la panchina verde arrugginito: mitologia contemporanea, mitologia della frammentazione, pustola della condanna perenne fissa sulla testa: soffrire senza morire, vivere nella ripetizione incessante della sentenza, della condanna; il corpo massacrato dalle malattie -

L’incanto dell’immobilità. Sul lungomare muore la vita, l’orizzonte è un muro di cartone che imprigiona il canto della sirena infossando le corde vocali nell’acido degli scogli nella piazza deserta nella città deserta. L’inferno della desolazione. Domenica pomeriggio alle tre. Chiazze di piscio sulla saracinesca della treves. L’incanto dell’immobilità.

Spermaceti si curva sulla panchina contorcendosi nello stomaco e i denti freddi battono schizzi blu (Spermaceti continua a vivere su una panchina, spalle al cimitero) schizzi grigi del mare e il crocefisso sulla superficie dell’acqua affonda nella luce inamidata di un corteo di contorni e mussolini a cavallo accerchiato da giubbe rosse tra i volti dei contadini la pelle è la terra - giubbe rosse e nere mussolinigaribaldi stuprando una bambina contadina stuprando una cerbiatta e un asino in un mantello rosso e verde. Fuoco verde, Fuoco bianco.

L’incanto dell’immobilità. Il massacro di Bronte. L’unità d’Italia. Il tricolore. La restaurazione dei baroni. I briganti. La camorra. Il fascismo. La democrazia cristiana. La camorra. Il boom economico. L’emigrazione in Germania. La chiesa. I morti ammazzati per la strada. La camorra e lo stato. Le gambe spezzate di un mendicante. L’incanto dell’immobilità.

L’ano è l’orgasmo dell’inganno:

un lungo corridoio asettico di fuochi azzurri, fuochi di giallo il freddo del muro fatto di crepe (Spermaceti continua a vivere su una panchina, spalle al cimitero) e creolina sull’acciottolato che balla su e giù senza sosta e le mattonelle che schizzano dai palazzi, schegge verdi schegge gialle (Spermaceti continua a vivere su una panchina) i palazzi crollano la terratrema violenta un grattacielo che cade giù la terra trema luce ossidata le strade riversano mani e braccia e ruote di motorini per i vicoli birre fracassate catene teste sfondate denti spaccati luce rossa luce rosa luce nera della gamba stuzzicadenti a stampella di un mendicante lamento sussurrato gettato tra la fossafolla. Una tigre in calzamaglia rosa e verde si bagna nella fontana di trieste e trento e alza acqua fino al cielo dal mare un’onda enorme, un’onda enorme.

L’incanto dell’immobilità. La miseria è il fiume della vita.

L’ano è l’orgasmo dell’inganno:

(Spermaceti continua a vivere) Un enorme colore indefinibile, un arcobaleno di scale di grigio raccoglie il palco di un teatro tenderosse e mascherelunghe che arrivano alle ginocchia danzando e ondeggiando corpi un bimbomaschera penetra da dietro un asino dalla cui testa escono libri di suoni metallici come tamburi e fuochi fatui fuochi azzurri e luce bianca abbagliante che sfuma nel grigio di un ammasso enorme di cenere unghie spezzate dita grumi di sangue scavare (Spermaceti continua a vivere su una panchina) la cenere sul viso la cenere sul braccio stendere le gambe bucando sacche di cenere nella cenere gli occhi non si chiudono, non si aprono, agitazione nella cenere non respirare per non attirare granelli di cenere respirare per non soffocare. Una macchia grigia amorfa la cenere che non diminuisce corpo nudo di polvere e cenere. I capelli nella polvere. La polvere nei capelli granelli grigi a forma di uncino formano una montagna imprigionando il corpo. (Spermaceti continua a vivere su una panchina, spalle al cimitero).

L’ano è l’orgasmo dell’inganno:

DI-SEGNI

di Bartolomeo Pacifico

Il treno suona house

Parker ha suonato la vita alla velocità della luce

Rossi girasoli danzanti

in fluido concime muoiono a testa in giù

Muraglie celtiche dipinte da writers

delimitano nei sogni di sangue il nulla

Carni trafiggono carni tumefatte

ferite da forchette blande a specchio

Alberi muti albini

parlano al vento di morte saggia

Meditazioni insudiciate imbrattano

il falso regime poetico impallidito

Preti stracolmi di genitali

strofinano con dotte storielle

bambini genuflessi al peccato

Città diluite in grigio

balbettano sopra il sangue del grano etereo

Tossici falchi cannibali

bevono desideri dai morti

in volo d’ambra

portano l’acqua rigonfia al dio assetato

Cadaveri infangati nei cimiteri

aspettano corvi spillati dal cielo

Costruttori di distruzione albeggiano

imberbi di profili come cancri sotto costole tumefatte

Scagliati vomiti di sogno

tracannati al dunque

stendono effluvi afrori eminenti

sul pane della vita

Sostenitori di guerre e pace

Dittatori di follie degenerate

Glottologi politici deterioranti

giudici dell’ombra dai teatri d’oro

spalano letame ai popoli ustionati

Dimensioni alterate

scuotono

al suono

il pomeriggio esotico e immigrato

Il tramonto è rosa come un maiale sospeso al cranio da un macellaio romantico

GHETTO

di Bartolomeo Pacifico

Vetriolo sbudellato nel ghetto

schiera marziano riflussi sonori

Un gatto sifilitico tra sigarette smorte sibila

sgretolato singhiozzante

E siccità discende

I sifoni scaricano sicari marci

piluccati da topi maniaci di grumo guasto

Suonano le suole dei passanti al sudiciume

mentre le barbe dei vagabondi stillano glucosio

sui fuochi del blues

Sotto caseggiati di cartapesta riciclati

Lattine, vetro e sperma posano in mosaico

L’uomo emozionato sfuma nella notte

Dietro l’angolo va in fumo

Come sogni dispersi in cielo

rivolti di ricami all’ombra

IL NOSTRO SORRISO DA TESTA DI PORCO

di Delio Salottolo

per la signora Angiolina

e tutto non è ancora semplice verde di cani sorridenti

profumi di parole assonanti e suoni di profeti nella spirale di lumaca

anime danzano sul dorso del cavallo cieco & sangue ricorda rosso nel ventre convesso in cui si torna & vigna dipinge ancora sorriso su petto di scintille e antiche armi d’assedio & canti di fede rosantica segnano il cammino nel buio di occhi chiusi & anima è sfiatatoio di balena su spiaggia di sale & poi acqua acqua e ancora acqua a rendere fertile il nostro sorriso da testa di porco

gli occhi della vecchia zia sono due spilli che si conficcano nell’aria come a cercare il punto su cui arrampicare il futuro e le parole attorno sono scherzigiochi e lucchetti di tristezza ma gli occhi della zia sono due spilli gioiosi e nella trasparenza del loro spessore è possibile vedere personaggi tra storia e leggenda e vecchi campi e animali da soma nella provincia di Avellino e una inconsueta Palermo stretta tra le magre dita del tempo trascorso

- o’ leone è ferito ma nun è morto ancora - afferma la zia

e la (sua) voce è puro scambio simbolico tra immagini e sensazioni, accarezza una vecchia consapevolezza che sopravvive negli interstizi delle epoche, che insiste tra meccanismi arrugginiti di sopravvivenza, che nei pascoli del sapere trova e ritrova la propria necessità verde di realtà e carne cotta sul fuoco di grossi pali del telegrafo

e arriva molta gente intorno al (suo) letto, persone di tutte le epoche e pronipoti di ogni sorriso o lacrima e tutti siedono su vecchie e sentimentali sedie perchè non viaggiano più in tram mentre un uomo dai grossi baffi neri (le) accarezza le mani crude e (le) spalma grasso animale sulle labbra di foglie in autunno e lei è ritrosa e sente piombare sbarre di betulla arrugginita sul (suo) corpo e ceppi di lamiera ammuffita legare i (suoi) sottili rami inerti

la Sicilia non è poi così lontana, neanche durante la guerra si è allontanata anzi sembra proprio vicina e quella terra brulla mentre cadono le bombe non ha senso e stare rinchiusi tra sbarre di fichi d’india dal sapore di collegio è impossibile ma come si può restare esclusi e reclusi quando tutto intorno è guerra e morte e ci sono mamma e papà e fratelli e sorelle, quando la povertà è un boccone di felicità da dividere perché di fronte alla guerra si è tutti poveri e allora una patata è gustosa anche per dieci persone perchè il nutrimento è solamente ombra di sopravvivenza e allora bisogna scappare da quel collegio, bisogna tornare a Napoli, bisogna ritrovare il silenzio doloroso delle persone care, bisogna trovare le persone care perché non sono morte, perché non possono essere morte, perchè sai benissimo che nessuno è morto e allora in cammino per vecchi treni e strade dissestate di carretti fino a veder spalancarsi le gambe stecchite di Napoli

e arriva ancora altra gente attorno al (suo) letto ma lei cerca con gli occhi il corpo assente alle mani, le presenze della giostra fantastica di colori e suoni e pennellate di un cuore trasparente, e lei cammina sdraiata nel suo letto solidificato di occhi e mani, si volta e possono essere una guida i fari innocenti e verdi e caldi di chi riposa al (suo) fianco, sdraiati sulla (sua) delicata sensazione tra incubi ispessiti e realtà sottili

- addò stà Menuccio? Chillo è sagliuto ngoppa e mo’ nun scende chiù! - dice la zia

e gli occhi e le gambe e le pance e le braccia di tutte le persone presenti si rincorrono e si domandano e sorridono e anche quei grossi baffi neri si voltano all’insù e non c’è profumo di garofani come a Montoro Superiore e poi la zia sorride perché Menuccio si trova ad accarezzare il vecchio cane sul soppalco di questo buco di casa

chissà quale soldato morto in guerra prima di congedarsi dalla terra ti ha accompagnato e ti ha fatto luce e ti ha sorriso senza pronunciare parola quando in quei maledetti cunicoli di tufo e umidità cercavi la strada per raggiungere il rifugio e il grosso ventre della famiglia, chissà cosa nascondevano quegli occhi, quelle labbra, quelle mani che stringevano la luce e ti accompagnavano, e pensi che è soltanto sottile e impercettibile confine tra vita e morte e che sei fortunata perché vedi e senti e odori e mangi e strappi cose che non esistono, e queste immagini e presenze hanno dipinto respiri e affanni di luoghi sorridenti, e tutto è sempre in nessun luogo e mai in tutti i luoghi, e tu ci ridevi sopra

e arriva ancora altra gente attorno al (suo) letto e lei stringe e tormenta gli occhi e contrae la testa da un lato all’altro e vede le cose di una lunga vita scappare via e ora sembra che le ha raggiunte, raccolte e superate e ora sono loro ad affacciarsi (a lei), a penetrare (in lei) senza grazia e delicatezza e (la) offendono perché lei ora si trova nell’internamento di letto e lenzuola bianche e quegli strani sorrisi e quelle mani premute sul viso e bagnate di acqua salata sono ferri incandescenti e lacerazioni sulla pelle aggrovigliata

- prima sono venuti mammà e papà e mi hanno dato nu’ bacio e m’hanno detto che aggià i’ appresso a loro, che loro m’anna fa vedere la strada - dice la zia

e poi chiude gli occhi e li riapre varie volte e c’è qualcuno che esce dalla stanza e altri che parlano in silenzio in un angolo e qualcuno che accenna discorsi e parole e dice che è meglio che li lascia andare e che va a fare appresso a loro? ma la zia ha gli occhi chiusi e li muove al di sotto delle palpebre con un ossessivo movimento circolare e ci sono sempre quegli occhi verdi e lucidi che cercano appigli e rimangono spalancati e inermi mentre i grossi baffi neri si sdraiano al fianco della zia

c’è il Re dei Topi nel cesso e il cuore ti salta in gola e sei terrorizzata perché c’è un topo che si annusa nel cesso e un topo non è mai solamente topo e pensi alle strane visioni e hai paura e c’è quella donna che ti dice sempre che il marito morto è diventato un topo che la tormenta e allora cerchi la via per uscire da quella casa che è da un lato al pian terreno e dall’altra al primo piano e raggiungi la porta e la apri e di fronte a te si trova una lunga ombra di uomo che non è legata a nessuno e che blocca la porta e non ti fa uscire e forse senti ridere ma non è importante e allora corri nel cesso e non c’è più il Re dei Topi

la stanza oramai rigurgita di gente e persone che sovrappongono le loro ombre, che allacciano gli abbracci, che accarezzano le mani e cercano con gli occhi il dolore di tutti e ci sono ormai troppe persone perché i vivi e i morti assieme sono molti e (la) opprimono e lei si guarda attorno sospettosa perchè si trovano l’uno al fianco dell’altro ma non parlano tra di loro e allora si chiede perché non giocano e non scherzano come tanto tempo fa quando si era tutti insieme ma adesso c’è questo velo opaco di vimini intrecciati e fradici di lacrime e lei allora non sa più se è viva o morta o entrambe le cose ma non (le) interessa perché ci sono tutti ma poi spalanca la vista e osserva il (suo) corpo nel letto e prova disgusto

- io me ne voglio andare, nun ce la faccio più a sta’ in prigione, io me ne voglio andare da qua! - dice la zia

e tutti allora di nuovo a parlare, a cercare vie da imboccare, a tastare nel buio pareti inesistenti, e i vivi sono preoccupati mentre sembrano allegri i morti perché è molto tempo che l’aspettano e infine si è decisa la vecchia zia a raggiungerli e allora loro (la) chiamano e dicono che tutto ora è giusto e perfetto ma poi ci sono quegli occhioni verdi e lucidi che (la) stringono e che (la) inondano del senso della vita e della disperazione della morte e (le) fanno sentire ancora attaccamento ma gli occhi a forma di spillo oramai rincorrono paesaggi insoliti dove si sovrappongono vacche pezzate e assi di ferro dolce, grigi tetti di mattonelle e cinghiali che si grattano, decide di addormentarsi per godere ogni istante del passaggio da masse di pensiero vitale a profumi di sogni di morte

e

corre con i (suoi) fratelli e sorelle sui campi verdi dell’infanzia

e sorride e non si volta più indietro perché resta soltanto

…l’ultimo soffio…

e adesso tutto è semplice verde di cani sorridenti

profumi di parole assonanti e suoni di profeti nella spirale di lumaca

anime danzano sul dorso del cavallo cieco & sangue ricorda rosso nel ventre convesso in cui si torna & vigna dipinge ancora sorriso su petto di scintille e antiche armi d’assedio & canti di fede rosantica segnano il cammino nel buio di occhi chiusi & anima è sfiatatoio di balena su spiaggia di sale & poi acqua acqua e ancora acqua a rendere fertile il nostro sorriso da testa di porco

LINO FOFFANO

La letteratura

Deve cavalcare

Verosimiglianza

Per andare verso

Lo spazio reale.

Verosimiglianza:

lievito realtà

la pazienza d’animale

salva spesso l’animale

e permette forti pale

per dissodare oltre il male

attenti! Nel nome

di Lino Foffano

splendono due “NO”!

Se la poesia non è questa

Non so fare bollire la crosta!

Metto oggi la testa nella cesta,

cammino veloce sulla pista,

con la speranza di un poco di posta

dopo il fulmine,

arrivano le rane

pronte a cantare

naturalità

del libro e della vita

sta nel transito

l’interiorità

si mostra con i fogli

per chi li scrive

ecco Natale!

Babbo natale balla

La canzoncina

Il gatto umano

Spara la frenesia

Di tolleranza

Il desiderio, fatto oggetto, sta sempre sulla soglia del possibile e dell’impossibile

E’ facile che l’ex rivoluzionario finisca per diventare un moralista, specialmente se non teme la fame

I genitori, troppo spesso, fanno figli per animare favole assassine










dettata dal ghetto

di Carmine Masiello

non sono solo

nel parco c’è una panchina che mi aspetta

un sostegno alla più progredita delle azioni umane :

il guardarsi intorno

fermo e distaccato

un vecchio in un corpo extra temporale

e comunque non è più una idea che

tutto è in me

senti come sale se solo ci dimentichiamo della caduta

le pale dell’elicottero iniziano a girare e tu mi parli di possesso

quale guerra ancora

il ritmo può essere anche una forma di preparazione

e se ancora defeco sulla tua struttura da rabdomante

che futuro riesci a scorgere

damigella del generale inferno

dell’ammiraglio inverno

condanna della domenica

onirico sfondo di dimenticanza

e

quella sembianza stellare

in una notte di luna piena ?

marte è il solo ad avere collocazione chiara rossa dai bordi definiti

marziale sposalizio di tragedie

culo e sostegno metallico disperdono calore

allora il legno?

io tifo o per il cartone o per i terreni molli morbidi

pochi terreni per pochi viziati della caduta

non parliamo di lavoro

per la cortesia del regno a cui siamo spillati

per il non cambiamento che dobbiamo agli elementi traslati

per le spiegazioni che si deve,che sono da darsi,che bisogna dare

se

cambiamo la costruzione che si deve fare,che è da farsi,che bisogna fare

per il non cambiamento !

sotto selvaggia elettrificata noia mercantile

La fuga e il Segreto di Napoli

di Umberto Duca

C’era una volta, nella città di Napoli, una grande statua di Giuseppe Garibaldi che un bel giorno decise di andare via da lì.

<<Questa città mi ha proprio stufato – diceva – E poi, diamine, mi si sono addormentate le gambe a stare in piedi!>>

Così in una notte calma e piena di stelle decise di scendere dall’obelisco sul quale l’avevano sistemato e correre a prendere il treno.

La stazione era proprio lì di fronte e così, lentamente (s’era tutto intorpidito), passo dopo passo si presentò dal capostazione chiedendo un biglietto per Losanna in Svizzera.

Nessuno, fatta eccezione per il capostazione, s’accorse di questa partenza se non il mattino dopo; <<Peppino! Peppino! Se n’è juto Peppino! E buono ha fatto!>> s’udì gridare dal barbone che tutte le notti dormiva ai piedi della statua, <<Mo me ne vaco pure io!>>, aggiungeva un suo amico. I due partirono all’istante da Napoli.

Quando poi la notizia si diffuse in tutta la città cominciarono a fioccare interpretazioni sull’accaduto come fiocca la neve sulle cime innevate.

Chi si riteneva sorpreso di questa scomparsa, chi affermava che prima o poi doveva accadere e chi gia filava spedito alla chiesa del Duomo chiedendo una spiegazione a San Gennaro, che da parte sua pareva non voler dare molta importanza al fatto.

Gli intellettuali si divisero: quelli ch’erano dalla parte di Garibaldi affermavano che la statua aveva fatto benissimo, perché qui a Napoli era stata trattata troppo male. Mai un restauro, una pulitina e i ragazzini che gli scrivevano cose stupide addosso con le bombolette di vernice, facendolo sentire stupido, e così via.

Quelli che invece gli eran contro sostenevano che la statua aveva commesso un grande errore fuggendo dalla città a quella maniera. Non aveva il diritto di partire in quel modo; di sorpresa e senza darne notizia ad alcuno. Era un insostenibile affronto fatto a Napoli e a tutti i napoletani. <<Se Napoli non gli piaceva –dicevano- avrebbe sempre potuto fare qualche cosa per cambiarla, e non scappare via a mò di latitante!>>

Intanto da Poggioreale ai Quartieri Spagnoli era tutto un vociare confuso; le signore dei bassi più bassi eran tutte concordi nel sostenere che quella statua aveva fatto un grande sbaglio e che alla fine erano fatti suoi, ma alcune di loro piangevano una specie di lacrime di coccodrillo perché ne avevano già nostalgia.

Le signore dei bassi più alti sembravano infischiarsene, ma sotto sotto covavano la stessa sua idea e qualcuna di loro gia aveva pronta la valigia completa di spazzolino.

Gli studenti da parte loro prepararono una grandissima e rumorosa manifestazione piena di striscioni colorati col su scritto: “Garibaldi è juto a guerra, s’è accattato ‘e caramelle, se l’è mise dinto ‘o cazone, è scoppiato ‘o mutandone!” e ballavano intorno ad una statua di cartone fatta da loro, ( che rappresentava ovviamente Garibaldi) e sembravano divertirsi.

Il sindaco convocò seduta stante l’intera giunta comunale che venne riunita la sera stessa. Vennero proposte una valanga di soluzioni al problema, ma le più importanti furono queste:

il consigliere Sconsigliabile disse così <<Miei cari colleghi, io proprio ieri ho inaugurato una fabbrica che produce statue, col vostro permesso e ad un modico prezzo, posso rimpiazzare la statua che è andata via con un’altra nuova fiammante!>>.

L’assessore De Statua disse invece così <<Mio caro Sconsigliabile io ho una fabbrica di statue non da ieri, ma dall’altro ieri, e propongo che la mia fabbrica sostituisca tutte le statue della città. Perché, pensateci bene miei cari colleghi, se una di esse è andata via possono farlo anche tutte le altre. Se dunque mi darete credito eviteremo un mare di problemi e prima che possa accadere una cosa del genere io, con la mia fabbrica, gia le avrò bell’e sostituite tutte quante!>>

La giunta, sindaco compreso, applaudì a questa proposta che in quattro e quattr’otto fu accettata e diventò un nuova legge.

L’intera assemblea fu scossa solo quando l’usciere Pensatecibene cercò di intervenire nella discussione, ma fu coperto dai fischi e nessuno riuscì a capire quello che andava dicendo.

Intanto la statua era arrivata in Svizzera ed aveva trovato il tempo per imparare a sciare e rilasciare interviste ai curiosi giornalisti svizzeri circa la sua fuga da Napoli. E dato che la Svizzera era sempre neutrale e non aveva nemici da nessuna parte, poteva far scrivere sui giornali tutto quello che le pareva ed anche, come in questo caso, le confidenze di una statua rifugiata qual era il nostro Garibaldi.

Una di queste è nelle mie mani, eccola:

Sono scappato da Napoli perché mi ero stancato di quel cielo e di quell’aria, di quelle strade e di quella piazza, di quei colombi e di quei fili del tram, di quelle facce e di quelle teste! Insomma, signor svizzero, mi ero seccato più d’un secchio d’acqua nel deserto! E adesso non ci tornerò mai più, qui sto davvero come un re. E chi mi smuove! Dovranno costruire un mondo solo per me, con una nuova Napoli, affinché io ci ritorni. E poi in fondo sono o non sono l’eroe dei due mondi? E che diamine!

Questa ed altre centotre confessioni furono spedite dal presidente svizzero (che la sapeva lunga) ai bambini napoletani che ne studiarono con molta attenzione il contenuto restandone molto impressionati. Arrivarono alla conclusione che nella città di Napoli c’erano un sacco di cose fatte male, altre fatte per metà ed altre ancora non fatte per niente.

Lessero e studiarono talmente a lungo la confessioni di Garibaldi, che intanto divennero più grandi e, non appena lo furono abbastanza per poter scrivere, scrissero lettere a tutti i napoletani spiegando loro il Gioco Delle Belle Statuine.

In principio nessuno sembrò apprezzare queste lettere, anzi, molti non le leggevano nemmeno e molti altri le davano in pasto al cane dopo averle lette.

Ma quelli non s’arresero e spedirono altre lettere a tutti i napoletani spiegando loro il Gioco del Nascondino. Al che le lettere date in pasto ai cani diminuirono sensibilmente e naturalmente più napoletani ne lessero il contenuto.

Forse s’era trovata la strada giusta per far ritornare la statua di Garibaldi al suo posto?

<> s’interrogava attonita l’intera città, <> sbraitava invece la gente a cui non interessava un bel niente dei giochi. Scoppiarono liti tra mariti gelosi e mogli gelosissime, entrambi convinti che quello delle lettere era un espediente in codice spedito dall’amante dell’amato coniuge. Una vera catastrofe.

Ma i bambini napoletani non s’arresero e capirono che bisognava insistere, così dopo una settimana arrivò nelle case di tutti i napoletani una lettera che spiegava per filo e per segno il Gioco del Facciamo Finta Che Io Ero… Quest’ultimo, non se ne comprese bene il motivo, entusiasmò a tal punto l’intera città che finalmente fu chiaro come il sole che s’era trovata la strada giusta per far ritornare Garibaldi al suo posto.

Difatti, la lettera che illustrava il Gioco della Campana, spedita un’altra settimana dopo, ne fu solo una sfavillante conferma, e così da allora vennero spedite altre cento lettere di giochi, tutte apprezzate e lette da ogni napoletano, e, come per miracolo, la città cominciò a popolarsi di “mecenati del gioco” e di “artisti giocatori”. I cani da parte loro dovettero arrangiarsi e dar la caccia ai gatti (d’altra parte s’accorsero che le lettere erano indigeste), San Gennaro invece decise che non c’era più nessun motivo di fare il suo famoso miracolo e partì per i mari del sud.

Così un bel giorno accadde che senza nemmeno avvedersene, vivere a Napoli divenne un Gioco da Ragazzi.

Da quel momento studiosi di tutto il mondo si sforzarono di individuare il segreto di questo cambiamento, ma nessuno ci riuscì a dovere e così quello divenne il più grande segreto di Napoli.

Ah, dimenticavo, Garibaldi, venuto a sapere di quello che era accaduto a Napoli, grazie alla grande abilità dei bambini napoletani, ritornò al suo posto ripetendo in continuazione che a Losanna non era poi stato così tanto bene come aveva creduto.

ALLA MANIERA DI BUKOWSKI

di Gianluca Paletta

Arrivi a un punto tale

Da non aver più parole,

Scrivi come sto scrivendo ora io,

Senza elaborazioni,

Senza metafore o giri di violino.

sai che qualcosa è andato storto,

Cerchi negli scarti

Nelle pattumiere, nei cimiteri,

Corri dove un tempo c’era qualcuno che somigliava vagamente a te stesso,

Riduci questa bocca un colabrodo

Affinché dei fasci luminosi possano trapelare

E giungere sottili e aguzzi, in quel luogo che un giorno ha riconosciuto o udito

Vagamente un tuo vocabolo, una pronuncia o un lemma…

Al fine di sventagliare questa fibra, questa falda vermiglia che

Solitamente chiamiamo lingua…

Dove vi sono posti frammenti di ciò che

Un tempo abbiamo cercato di dire…

Brandelli di ciò che in virtù di tale maledizione abbiamo

Nostro malgrado Racimolato e accolto…

Corriamo verso concise formulazioni

Poiché queste hanno la capacità di dilatare la coscienza,

Di rastrellarla…di incorniciarla….in quella parete

Che muove l’ombra…magari il suo custode

Che vive in virtù di tale meraviglia

FRAMMENTI DI NAPOLI

(il viaggiatore)

di Fabio Rocco Oliva

Alfredo se ne va in giro con le mani nelle tasche. Ha la testa affondata nel petto grasso. Una sciarpa e un capello di lana neri. Il corso di Ercolano è una lunga strada dritta fatta d’acciottolato. Ed è notte. Alla fermata dell’autobus Alfredo va a sedersi su un pezzo di lamiere. Il freddo del ferro gli penetra i calzoni e gli fa bruciare le chiappe. Batte le palpebre. Passa qualche macchina. Qualche motorino. Poi arriva il 455, Alfredo ci salta su e arriva alla ferrovia. Qui scende dall’autobus e va a sedersi su una panchina. Le spalle alla statua di Garibaldi. Poi fissa l’ingresso della ferrovia. Batte le palpebre. Qualcuno aspetta un autobus. Ci sono tre puttane grassottelle. Qualche travestito e una donna africana seduta su una panchina. È seduta lì ormai da un mese. È immobile. Alfredo non caccia le mani dalle tasche. Poi si alza. L’umidità penetra nelle ossa. Alfredo sale su un autobus: il 470. Oltre il finestrino c’è il tassista abusivo grasso e pelato che parla con una donna ritardata, magra, con gli occhiali e una camicia. Il 470 parte e torna dopo circa un’ora. Il tassista è ancora lì. Alfredo scende dall’autobus. C’è qualche autista vicino al tassista. Saranno in quattro a parlare con la ritardata. Alfredo va a sedersi su una panchina. Gli autisti prendono in giro la ritardata. La donna africana si è alzata ed è andata a pisciare dietro un cespuglio. Poi è tornata a sedersi. Ha una coperta sulle gambe. Alfredo da le spalle a Garibaldi. Batte le palpebre in direzione della ferrovia. È arrivato il 430. Ci sono degli uomini che dormono in un’aiuola circondati da cartoni di vino. Alfredo si alza. La ritardata è ancora lì. L’africana è un mese che è lì. Non dorme. Alfredo sale nel 430. E’ seduto negli ultimi posti. In un angolo c’è un ragazzino che sta fumando del crack. Dal gruppo del tassista si stacca un autista che mette in moto il 430. Una delle puttane è salita in una macchina. Le altre due parlano e ridono. C’è una macchina nera che le controlla per tutta la notte. L’africana si è alzata per andare nuovamente a pisciare ed è passata vicino al gruppo del tassista. Dopo un’ora torna il 430. Alfredo scende e va a sedersi su una panchina. L’africana. Il tassista. Le puttane. Gli uomini nell’aiuola. Le spalle a Garibaldi. Alfredo batte le palpebre in direzione della ferrovia.

ALCUNE ATROCITA’ n. 4

(la vita del signor Q.)

di Delio Salottolo

Il signor Q. è uscito tardi da lavoro: doveva terminare alcune pratiche importanti. La sua macchina è guasta ed è costretto a prendere il pullman. Alla fermata di piazza Garibaldi il signor Q. prova un violento disgusto nel vedere extracomunitari sporchi e ubriachi, tossici sdraiati a terra a riposare le cervella, barboni che si muovono trascinando piumoni sporchi di urina e merda. Quando il pullman finalmente arriva, il signor Q. sorride e ha preso una decisione. Giunto a casa, mangia un boccone, si cambia d’abito e indossa un vestito completamente nero e stretto. Ruba le chiavi dell’auto della madre che, nel momento in cui il signor Q. silenziosamente apre la porta, gli dice di non fare tardi perché domani deve andare al lavoro. Decide di recarsi al terminale della circumvesuviana, ferma l’auto, accende le quattro frecce, esce con una borsa in mano, dinanzi a lui si trova una vecchia barbona che mormora qualche vecchia canzone, il signor Q. estrae una mazza ferrata che aveva acquistato in un negozio di armi antiche e con un solo colpo le sfonda il cranio facendo schizzare sangue e cervella ovunque. Lì vicino si trova un tossico semiaddormentato su una panchina che non si è accorto di nulla, assesta un colpo violentissimo e salta via un occhio e parte della mandibola fracassata rimane incrostata alla mazza. Il tossico rotola a terra e rantoli fuoriescono dal quel che resta della sua bocca. Il signor Q. prende tra le mani il membro, si masturba ma non riesce ad arrivare: voleva schizzarglielo addosso nel momento esatto della morte. Si rammarica di ciò e gli occhi gli si gonfiano di lacrime; intanto nota che il pullman è arrivato al capolinea, ovvero la fermata a cui deve scendere. Entra in casa, arriva la madre che gli sorride dai suoi denti cariati e spezzati, gli dà un bacio umido sulla guancia e gli dice che la soglioletta bollita è pronta.

Novantanove per cento

di Salvatore Oliviero

Lei è Caino

Che dorme sotto il mio letto di rose.

Ogni notte lei esce fuori

Salta sopra di me

E con un bisturi apre il mio costato

Per inserirvi dentro una videocassetta

Sulla cui etichetta c’è scritto “ pasto nudo “

Lei è un serpente

Attorcigliato intorno a questa fiamma

E sulla cima di questa fiamma

Con la sua lingua lei ha cancellato

La linea del tropico del Capricorno

Con la quale io riuscivo a tenere

Distante la mia anima dall’argilla.

Lei è la prossima guerra mondiale

Che esploderà dentro l’insegna al neon

Di un negozio di ferramenta

E io per lei sarò

Come il cuore di Dio munito di airbag

Come la pausa di una semicroma

Come il telecomando dell’aria condizionata

Ognivolta lei si trova nei posti

Più caldi della terra.

E dal sedile posteriore della sua macchina spaziale

Io sparerò al cigno nero

Che rubò una corona di diamanti dalla sua anima.

Ma un piccola voce che proviene da un altoparlante mi dice:

“ Non darle assolutamente retta

Il novantanove per cento di quello che ti vorrà dire

Non è altro che una stretta di mano

Di monossido di carbonio “

Floppy disk

di Salvatore Oliviero

Quando la bocca del lupo cattivo

Si apre e la sua lingua pende fuori

Tu mi prendi in ostaggio

Tu mi trasformi in un fantasma

Danzatore del ventre

Poi rubi del petrolio dall’Arabia Saudita

Con la quale tu sporchi la mia anima

Presa a morsi da pesci e vermi

Nel fondo dell’oceano.

Ma perché io dovrei stare qui?

Qui con i polsi legati

All’asta di una buca di un campo di golf

Aspettando una tua chiamata

Sul mio telefono-aragosta

Quando invece tu sei

Ai confini della terra

Nuda e timida

Con una macchina fotografica in mano

Intenta a fare scatti a tutto ciò ch’è game over

Dove il mio cuore ha la capienza di un floppy disk.

Come un pinguino che sta pianificando

La sua fuga dalle gole dell’inferno

Io sono un organo vitale

Che tu hai venduto su internet

Io sono un megafono attraverso il quale

Tu puoi gridare soltanto le consonanti.

Io ti prenderò a calci

Io ti cancellerò su un portacenere

Caduto dal cielo

Ma i tuoi occhi che strisciano

Come un ragno sotto la presa della corrente

Mi hanno dato l’ultimo rigo di questa pagina

Circondata da un esplosione di pietre ingioiellate.

E quando io avrò scritto

Sopra questo ultimo rigo

La parola Goodbye

E quando io avrò pigiato

Il tasto del riavvolgimento veloce

Del mio videoregistratore

Prendi un bicchiere e riempilo

Con l’acqua dei “ Pesci “

Tu che sei nata sotto il segno zodiacale del Leone.

Giubbe rotte

di Andrea Vespucci

Sprofonda il letto da cui ascolto incomprensibile verso

Rifletto ciò che avete creato: l’oscurantismo

I suoni da voi emessi riempiono di umidità il volto più scarno

I fuochi delle rivoluzioni non sono bastati

La vostra febbre morale è acido muriatico

Il vostro pensiero è il pianto del primo uomo che guarda le stelle

Come antrace il ruvido silenzio

ALCUNE ATROCITA’ n. 3

(la vita del signor Q.)

di Delio Salottolo

Il signor Q. è tornato prima a casa perché non aveva straordinari da fare. E’ davanti allo specchio e sa che il suo contratto sta per scadere. Gli hanno, però, promesso il rinnovo per altri sei mesi. Il signor Q. è contento e si vede bello. La stempiatura lo rende molto affascinante e ha deciso di uscire stasera. Indossa un pantalone classico grigio, una maglia a collo alto nera e una giacca dello stesso colore: il profumo spruzzato sui vestiti, sotto le ascelle, tra le gambe. Prende l’auto migliore: una Audi con i vetri fumé e si reca al bar dove è solito festeggiare e divertirsi. Ordina da bere: gin e acqua tonica ed è appoggiato al bancone su di un gomito massaggiandosi il mento con la mano destra: una posa che ritiene assai seducente ed efficace. Quasi subito gli si avvicina una ragazza alta e bionda, ben truccata e con un vestitino nero, stretto e corto. Il signor Q. offre da bere e le racconta il suo lavoro, la sua vita, le donne che ha avuto e lei è già innamorata quando lui la invita a fare un giro in auto per andare in un posto tranquillo e prendere una bottiglia di champagne. La stanza d’albergo è molto elegante e lei sfila immediatamente le scarpe alte e mostra dei piedi deliziosi: è ubriaca. Si concedono due coppe di champagne a testa e il signor Q. la prende per un braccio e la fa sdraiare dolcemente sul letto, si spoglia e lei gode nel vedere il suo enorme membro. Lei supplica di poterlo toccare e leccare: il sacro cazzo divino. Il signor Q., però, è un duro e la monta con violenza e lei grida dal piacere folle e lo vuole anche in culo, lei urla basta ma lui insiste e lo fanno sette volte, per ore e ore e lei dice che non ha mai incontrato un uomo così e lui dice che ne ha fatto godere di donne e la prende per i capelli per farsi succhiare il membro ancora in erezione e le ordina di bere il sacro nettare divino. La riaccompagna a casa e sono quasi le sei del mattino quando ritorna. Il signor Q. è ancora davanti allo specchio e finalmente è riuscito a masturbarsi, erano settimane che il minuscolo membro gli rimaneva floscio tra le dita. Vede gli schizzi scivolare sullo specchio quando entra la madre che, donna discreta, capisce tutto ed esce, urlandogli da fuori che se vuole gli prepara la colazione.

FRAMMENTI DI NAPOLI

(la mancanza)

di Fabio Rocco Oliva

E ha fermato il camion in un angolo della stretta piazza d’ogni bene e poi scende e prende la scopa e poi è circa l’una di notte e prende a raccogliere la spazzatura e sposta un bidone toglie con l’altro collega quello che si può subito mettere nel furgone e triturarlo poi svuotano ad uno ad uno tutti i cassonetti e poi via altri cassonetti e altra spazzatura ed è l’alba e tornare a casa mentre la moglie si è appena svegliata s’è lavata ha preparato il caffé e il marito ha aperto la porta e siede al tavolo della cucina e beve il caffé con la moglie che è già pronta e ha già tutto nella borsetta e bevono lei accende una sigaretta due tiri e glie la passa poi si alza gli da un bacio sulla guancia sinistra e va via chiude la porta e scende le scale aspetta l’autobus il marito va a letto è mattina ormai e si stira le ossa nel letto e si lascia scivolare dove aveva dormito sua moglie per raccogliere il calore di lei che ha appena preso l’autobus e gocce di nebbia intorno e il Vesuvio poco visibile e il marito si addormenta e la moglie arriva in fabbrica e comincia a lavorare alle suole delle scarpe in uno scantinato a Grumo Nevano e poi pausa pranzo e poi ancora lavoro e il marito si sveglia e la moglie finisce di lavorare poi prende l’autobus il marito ha cucinato il marito ha mangiato e ha preso la divisa prepara un caffé il piatto per la moglie sul tavolo fuma ancora e la moglie apre la porta e il marito sta finendo di fumare poi passa la sigaretta alla moglie che ha il volto allungato e pallido e il marito si alza la moglie odora il piatto lui le bacia la guancia sinistra lei getta la cicca e mangia poi si lancia sul letto e lui per le scale e per i cassonetti lei si stira il corpo sul letto e scivola dove poco prima dormiva il marito per prendere un po’ di calore e il marito è in strada. Quasi natale. Suonano gli zampognari.

MARGINALIA

a cura di Luca Caserta

Quando compro un libro, mi preoccupo sempre che abbia margini spaziosi: e non tanto per amore della cosa in sé, che pure fa piacere, quanto per l’opportunità che il margine ampio mi offre di scrivervi a matita le idee che mi vengono (…) Quando quello che voglio annotare è troppo lungo perché rientri nella stretta striscia di un margine, l’affido a un foglietto che inserisco fra le pagine, e mi preoccupo di fissarcelo con una goccia impercettibile di colla.

Edgar Allan Poe

Un tormentato quieto inferno

And the things behind the sun.

Nick Drake

Negli ultimi tempi a Napoli si cammina a testa bassa, contando i ciottoli alle strade. Non si ha il respiro del paesaggio.

Non si cura il mestruo della città, si lascia che scorra, che si faccia ombra, che si estingua nel mare, come le lame dei coltelli nascosti dallo squarcio di luce sulla copertina del Gomorra di Roberto Saviano.

Si cammina per tornare a casa, come se la sirena annunciasse il coprifuoco, cercando di essere invisibili. Oggi a Napoli si producono strani frutti, come quelli cantati da Billie Holiday.

Gli alberi del Sud producono uno strano frutto, sangue sulle foglie e sangue alle radici, corpi neri che ondeggiano nella brezza del Sud, uno strano frutto pende dai pioppi. Una scena pastorale nel valoroso Sud, gli occhi sporgenti e la bocca storta, profumo di magnolia dolce e fresco e d’improvviso l’odore della carne che brucia. Qui c’è un frutto che i corvi possono beccare che la pioggia inzuppa, che il vento sfianca che il sole marcisce, che l’albero lascia cadere qui, c’è uno strano e amaro raccolto.

Napoli si lascia cadere come un frutto marcio, come i Santi del suo seicento pittorico nella posa di un’eterna estasi. Ma in questo io non trovo dignità.

Come il San Sebastiano di Battistello Caracciolo, fermo al palo senza dolore, che contempla più la posa classica, così Napoli è ferma a contemplare se stessa, come un frutto che pende da un pioppo.

Attendiamo l’ingresso in città delle cose di gran peso, che riescano a imbarcare per mare gli intellettuali napoletani, più sensibili alle qualità divulgative che a quelle propriamente creative, che preferiscono cadere nel convenzionale, per rigor di vocazione, ormai esausti, quasi inoffensivi.

Eppure guardando bene a volte capita di prender le misure ai sarti. Bisogna solo tirare i conti al tempo, rivedere le carte, ripensare camminando.

In Piazza Monteoliveto da alcuni giorni è comparso un grande manifesto pubblicitario per una rassegna teatrale organizzata da Il Pozzo e il Pendolo, il teatro in Piazza San Domenico.

La strada che da Piazza Carità porta a Monteoliveto, conserva la bellezza di un luogo magico. Tra il palazzo dell’INA e l’ ammasso metallico in onore di Salvo d’Acquisto, via Morgantini si getta nel portone di un palazzo ripreso nel 1954 da Vittorio De Sica per un episodio dell’Oro di Napoli, quello con la Mangano, il più lucido.

Ed è un luogo di metà anni cinquanta, spopolato tra le luci notturne della piazza, come immerso nella nebbia, a rifare i casamenti torbidi e antichi. Ricorda le piazze dipinte da Giorgio De Chirico.

Il manifesto, che presto verrà coperto - sì perché i manifesti hanno vita breve il tempo di essere digeriti - riporta un’immagine ingrandita di un album di un cantautore inglese degli anni settanta.

Credo che sia la prima volta che a Napoli venga presentato con così grande merito di vista il timido Nick Drake e spero che chi ha scelto l’immagine ne abbia calcolato l’importanza.

Il dipinto tratto da Pink Moon terzo ed ultimo album di Nick Drake inciso nel 1972, fu realizzato da Michael Trevithick e richiama i maestri surrealisti.

In verità non una gran cosa, tutto perso a cucir le tasche a Mirò e Magritte.

Pink Moon resta il testamento di un artista che in vita fu compreso poco, l’atto finale della sua musica da camera eseguita come i blues del Delta, ma tra i colori bruni delle campagne inglesi.

La sua rivoluzione calma e serena leviga l’aria e la distribuisce ordinatamente così da eliminare il rischio che di lassù si possa volar via cadendo.

Così Plutarco descriveva la luna, la stessa dove Drake poggia i piedi.

L’album contiene un brano, Things behind the sun, una delle canzoni più complete del secolo scorso. Sembra un acquerello, i versi più belli di Coleridge, un film muto, un viaggio in treno, il bacio rubato di un’amante, una goccia di pioggia, il silenzio della notte.

La voce di Drake trascolora da strade assolate a ricacciare il buio oltre la siepe.

Questo ripensavo guardando il manifesto in Piazza Monteoliveto.

La strada ruzzola giù verso via Monteoliveto, ti frena solo la fontana eretta in onore di Carlo II d’Asburgo, con la statua del Cafaro. In alto, incastrata in un angolo, la più bella chiesa di Napoli, Sant’Anna dei Lombardi.

Le ho fatto visita ultimamente, imbrattata ancora di polvere, con i marmi quattrocenteschi chiusi nei veli di plastica.

Nella piazza si è consumato un gioco indiretto di silenzi, la chiesa ferma nel suo restauro, io fermo a riguardare la luna rosa di Drake, le volanti dei carabinieri ferme al palo come i cavalli davanti ai saloons.

Un tormentato quieto inferno.

E all’improvviso ho alzato la testa verso l’alto a riguardare i tetti, immaginando che Things behind the sun rallentasse i passi della gente. Quel luogo è diventato calmo, il principio di una stasi. Tutto il rumore della città ricacciato via da un ricordo di fragile poesia.

Forse, in questo momento, soltanto la fragilità può correggere la storia di Napoli, riordinarne la tradizione cucendo i buchi al vestito, liberare le strade dall’insopportabile tanfo del popolo, limitare l’invadenza dei gesti, rendere pudico il suo corpo.

Napoli dovrebbe scoprire le cose dietro al sole.

Hyria, rara testimonianza

La rivista fondata e diretta da Aristide La Rocca

In un tempo in cui vegetano come funghi pubblicazioni ed iniziative editoriali sorte con lo scopo di attingere ai pur generosi anche se esclusivi finanziamenti messi a disposizione di testate di discutibile rilevanza o magari espressione di minigruppi partitici e di associazioni parlamentari costituiti ad hoc, sono rare le testimonianze come quella offerta da “Hyria”, periodico culturale e letterario fondato nel 1972 e diretto, fino ad alcuni giorni or sono, da Aristide La Rocca, giornalista pubblicista, già benemerito direttore sanitario dell’Ospedale Cardarelli.

Era appena rientrato dalla tipografia per gli ultimi ritocchi al numero in corso di stampa, quando Aristide La Roccaci ha lasciato. Con lui scompare un uomo libero, poeta e letterato, oltre che amico e maestro.

Per commemorarlo, familiari ed amici si sono ritrovati alla Collegiata di Nola. Il sindaco, dott. Felice Napolitano, ha ricordato per l’occasione le doti morali, professionali ed artistico-culturali di La Rocca, al quale egli stesso aveva consegnato alcuni mesi or sono, nel corso di una pubblica cerimonia, l’onorificenza di “cittadino benemerito”.

C’è da augurarsi che qualcuno all’altezza del compito raccolga con lo stesso impegno (impossibile, sembra, sperare con la stessa cura, competenza e raffinatezza) la sua eredità giornalistica, facendo vivere a lungo Hyria, della quale sono consulenti editoriali, non a caso, Giorgio Bàrberi Squarotti, Raffaele Giglio e Giancarlo Menichelli .

(a. p.)

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