EDITORIALE
Letteratura e Potere
Il potere si serve ancora della letteratura per somministrare palliativi e prozac. Una tranquillità da psicofarmaci in maniera da fornire alla popolazione i limiti entro cui agire e le adeguate modalità di comportamento relazionale. Il potere va a braccetto con la letteratura ufficiale. La letteratura ufficiale è quella che attesta la sua esistenza burocraticamente: sono i testi registrati al tribunale, alla siae, sono le riviste appoggiate dai partiti, gli eventi culturali promossi dalle grandi case editrici. In queste manifestazioni è chiaro che ufficializzare l’esistenza di un lavoro letterario e trarne i vantaggi di visibilità, è una possibilità legata al danaro e alle conoscenze influenti. Pagare la pubblicazione del proprio libro alle case editrici è l’unica modalità possibile per entrare nell’élite culturale e divenire così scrittore ufficiale (speranza di ritrovarsi in un buon manuale scolastico). Il rapporto tra Letteratura e Potere è così calcificato.
Poi avviene una rottura. C’è una parte della letteratura che non rientra in questi giochi del potere ufficializzato e si muove nell’underground, spazio in cui si evidenziano i nodi attorno ai quali costruire e sviluppare la possibilità di una resistenza. Questo è lo spazio di LABAUT, lontano dalle logiche del potere economico e del potere culturale sacro. Questo è l’impegno di LABAUT ormai da tre anni, che striscia tra intersezioni inestricabili dei vicoli napoletani, legando la letteratura alla realtà esplosa.
È motivo di soddisfazione che, nonostante le difficoltà pratiche nel portare avanti questo progetto, molti poeti abbiano contribuito ad ampliare queste pagine. Si ringraziano le librerie che ci offrono lo spazio per esporre la rivista che oltre a Napoli ed Avellino, è presente anche a Cosenza.
LABAUT sarà presente ad OFFICINA 99 la sera del 15 febbraio per un reading su Allen Ginsberg nell’ambito della manifestazione nazionale BHAP (beat, hippy, autonomi, punk).
Le pagine di questo numero sono imbrattate delle tavole favolistiche di Gaia Guarino che ha curato anche la copertina, e degli schizzi minimalisti dovuti all’inossidabile verve satirica di Lino Foffano, artista poliedrico.
L’inquietudine della parola
di Fabio Rocco Oliva
Quando la forma non ha più la forza di creare: questo lo scacco dello sperimentalismo - la forma diventa prigione della parola, della scrittura.
La parola è la manifestazione della realtà degradata.
Non solo.
C’è disperatamente qualcosa di altro: la realtà disgregata è la parola stessa; è l’inquietudine della parola.
Per le strade, per i vicoli, per i palazzi. Toccare le crepe, un mutilato o deforme gettato a terra, lo sbandamento di un ubriacone, di un pazzo annichilito nella fossa della folla. Allora queste immagini si confondono nella disgregazione urbana, si frammentano in schegge marginali gettate a caso tra l’acciottolato, dove l’altro tira su e va avanti.
E questi corpi gettati, le crepe mute dei palazzi, l’immobilità del Vesuvio sono l’inquietudine della parola. Sono la parola stessa che si manifesta nella scrittura in maniera frammentata e disgregata, alogica – schegge che schizzano e si urtano e s’afflosciano nella loro solitudine di frammenti.
Per le strade:
Dove il sistema politico e morale seppellisce il malessere dell’uomo contemporaneo negli angoli marginali delle strade: angoli che sussurrano invece di urlare (il mormorio delle frammentazioni penetra nelle vene languidamente e lascia un singhiozzo dietro la spalla che perseguita la penna). Il sistema politico e morale lascia il malessere negli angoli delle strade; il malessere che vediamo ma non tocchiamo direttamente, esposto in vetrina tra le vetrine dei negozi di abbigliamenti costosi; lo annusiamo, sfiorando da lontano il corpo esploso dell’uomo contemporaneo.
È ancora la chiesa, è ancora il sempre presente fascismo che indossa maschere diverse, l’ignoranza, l’intellettualoidità, la fede nella mitologia, nell’impresa dell’eroe: la fiducia, la speranza di qualcosa di epico. Questi mostri formano il corpo assente: un’idea organizzativa della massa, perversa, perché non più concretizzata in un corpo fisico come un dittatore o forze armate, ma nascosto e infiltrato nella banalità del malessere quotidiano. Il corpo assente è il vuoto tra il passante e il mutilato gettato per le strade: non toccare il disfacimento del corpo ma vivere quel corpo in rovina nell’incessante e banale quotidianità del malessere. L’eterna ripetizione della sentenza.
E questi corpi gettati, le crepe mute dei palazzi, l’immobilità del Vesuvio sono l’inquietudine della parola. Sono la parola stessa che si manifesta nella scrittura in maniera frammentata e dispersiva, alogica
La parola è la manifestazione della realtà degradata.
Non solo.
C’è disperatamente qualcosa di altro: la realtà disgregata è la parola, è l’inquietudine della parola.
di Delio Salottolo
Sì, la scrittura è proprio uno strano strumento.
Osservo: turbe di dispersi che invadono le vie della città e non sfiorano i corpi degli altri con lo sguardo o le mani ma occupano territorio invalido e attraversano traversie opache e silenziose.
Che cos’è, allora, la parola (strumento invalido dello scrittore)?
La parola è un dono divino e verticale della società.
Questa libertà, però, non appartiene a chi marcisce nei mercati silenziosi dell’esclusione.
Nella scrittura, allora, è presente un pungolo e una posta in gioco.
Osservo: una donna che dorme alla stazione e riempie la notte con un canto di antica melodia che fuoriesce dal piumone sporco, un uomo, caduto da uno scoglio, che ora rincorre se stesso tormentando il pene in pubblico, una donna di grassezza paesana che chiede a tutti di far l’amore con lei e si piscia addosso, un uomo fuori al cimitero con tre cani che ha fondato tutte le banche d’Italia.
Qual è il pungolo del brancicatore di parole?
Annullare la propria distanza dalle cose, afferrare in un caldo abbraccio la realtà orizzontale, usare il metodo Stanislavskij per fingere e dissimulare, latrare schemi di parole contro edifici ben costruiti.
E la scommessa?
Perdere l’Io e trovare l’Altro. Sorridere agli esclusi e iniettarsi poche gocce del loro dolore.
Bisogna, allora, percepire la scrittura come autoesclusione e tensione tra interno ed esterno.
Osservo: Plebe! Plebe! Il vecchio allarme risuona nei ghetti abbandonati di Scampia e qualcuno vocifera di sottoproletariato e intuizioni sociologiche si sprecano e si rincorrono nel groviglio incolore e senza parola. Plebe! Plebe! L’allarme richiama all’antica lotta pretoriana e c’è chi simpatizza per l’esclusione e per la sua forza di resistenza alla Legge e alla Norma. Plebe! Plebe! E questo nome è quello più indicato. Le lacrime attraversano le guance di chi prova compassione e pietà per questi viaggiatori dell’insensatezza.
In cosa consiste la tensione?
Percepire la linea d’esclusione che separa e costituisce, ascoltare i richiami bestiali dell’escluso, aggirarsi continuamente nei pressi del solco e provarne attrazione profonda.
Cosa deve fare di se stessa la scrittura?
Modellare parole e coordinamenti neuronali, assicurare il proprio fallimento nell’attuazione della comunicazione, raggiungere persone e angosce, guardarsi allo specchio e sorridere di se stessa, camminare masturbandosi nel tramonto dell’Occidente.
C’è bisogno ancora di una letteratura-proiettile, ovvero militante.
NAKED*
di Gianluca Paletta
Un tempo dicevo “ora comincia il giorno”
“Rastrellato dall’ultimo incubo”
Così mi sembrava che blaterasse il ferreo corrimano,
Sui quali sbronzo mi apprestavo a salire..
Ora non basta osservare tale squallore,
Non basta scriverci sopra delle righe, non basta
Raccontarlo, non basta traversarlo del tutto…
Non basta nemmeno avere scampoli di tenerezza…
Ci vorrebbero lune differenti
Per prendere tutto dal verso giusto.
Ma cosa se non questo squallore
Che mostra a me stesso una infamante domanda
Come a dire…cosa cazzo ci fai qui?
Una domanda…
Morta nel buio delle tombe,
Trasformata a volte
In ciò che un tempo
Aveva l’aspro sapore di un corpo,
e vermiglie sembianze del sangue…il suo respiro….
Oggi…raccoglie ombre dal buio.
Come spesso accade,
….sono qui
Ad aspettare la sua pretenziosa favilla
Che dall’oscurità prevarica il mio affanno,
lui ne è certo,
Perché da sempre
aspetto una sua domanda
E delle acute verosimiglianze.
È vero…un tempo dicevo “ed ora comincia il giorno”
I netturbini sulla strada,
il vecchio barbone buttato un terra, storpiato dalle
veglie,
braccato nella morsa di una conversazione,
sbrodolava alcol dagli occhi.
Dicendomi “mio padre è belga e mia madre e italiana”
Penetrati dall’odore di marcio, le vitree pupille…
non c’era niente che mi somigliasse…
nessuno che stringesse tra le mani
lettere di fortuna o fogli lasciati incustoditi
ancora straziati da tante mani incapaci
e tante voci funeree…
solo il discreto sentore del buio,
che da li a poche ore sarebbe stato
ricacciato fuori,
imbevuto dalle onde.
Strenuo e provato….immobile e pensoso, sulla sedia del povero commediante…
Un tempo dicevo anche “il buio mi sta dando addosso”
un tempo logoravo la mia stessa immagine
per giunta mai riflessa dal tempo,
estratta con forza dalla luce radente,
un tempo dicevo il buio mi sta dando addosso
per tanta merda e tanta sofisticatezza,
per tanto acume nello stomaco…come
Stourley Cracklite* che dalle budella in cancrena,
scorse tra le forme di Etienne-Louis Boullèe sia l’amore che l’inevitabile morte.
Un tempo dicevo cosa mi sta succedendo,
Per delle lacrime gettate invano e un cuore a volte
troppo stretto a gli occhi e alla bocca….
e quando succedeva uscivano fuori parole canterine ancora troppo lontane dall’uomo
…magari….pensavo di poterne accudire tante…
Ancora troppo ingenuo…per scomparire
Dietro una frase tortuosa e poco incline
Al colore della terra.
…Ora non posso che vedere quel uomo
posare le sue corpulente radici,
raccattare briciole dal piatto
spiegazzare un libro e dire “ed ora che la notte ancora arde in cielo
cosa cazzo ci faccio qui”
a tingermi ancora di bianco
a prolungarmi ancora in vecchie solfe
da rognoso acquitrino,
avevo tentato di raccapezzarmi in piccole strofe da
urologo strafottente,
grandi parabole chiuse nel ferreo mordente…
ed ora invece torno a bruciare il mio amaro singhiozzo,
a torcere il mio sguardo
a rammaricarmi di vecchie storie da circo polveroso
mio dio come siamo poveri di storie
e vecchi di mille anni
quando narriamo le nostre vicende
* Dal film di Mike Leigh “NAKED”
* Dal film di Peter Greenaway “Il Ventre dell’architetto”
SPERMACETI
di Fabio Rocco Oliva
La spazzatura riempiendo le strade della provincia nord di Napoli e la puzza entra nei cappotti, sulla pelle, nei discorsi della gente, nei monologhi solitari di Spermaceti per le strade della periferia la sera vagabondare, durante il giorno di mal di stomaco camminando con le mani a premere la pancia mentre lo stomaco si contrae ad ogni passo e piega la schiena cercare nella spazzatura qualcosa, qualsiasi cosa da poter prendere e mettere sotto il cappotto stringendola e andandosene in giro mettendo le mani su un cassonetto e si piega a vomitare e il vomito gli si rovescia sulle scarpe sul cavallo dei calzoni e una mano sulla fronte.
L’incanto dell’immobilità. Le vie sono vuote, lunghi viali di solitudine e immobilità - la provincia nord di Napoli a notte fonda. Case su case, palazzine di mattoni e antenne satellitari. Un uomo dell’est ubriaco è al centro di una lunga strada dritta ed urla e i fari delle macchine gli sfiorano le braccia. L’incanto dell’immobilità.
Zoppicamenti e sbandamenti e Spermaceti afferra le pietre delle mura della fabbrica della RAMOIL a tavernanova, fabbrica di gas, di chimica, sgrava bambini di leucemia oltre il ventre della madre, fabbrica nascosta nella provincia e fumate continue di gas grigi e neri e le luci gelide dei fari della fabbrica – metallo e tubi grigi si attorcigliano - e Spermaceti sbanda zoppica afferra le pietre del muro per non perdere l’equilibrio e allora si ferma in un punto qualunque si cala i calzoni perde le brache s’accovaccia come una gallina che sta per fare un uovo e le feci liquide allagano l’asfalto rapide (la fronte e il sudore) e schizzi di feci sulle brache e respiro affannato (sudore e febbre).
L’incanto dell’immobilità. L’entrata della ferrovia sorregge la punta del vesuvio e guarda i disperati gettati nell’acciottolato e nelle lamiere della piazza dove Garibaldi in pancia grossa supera i disperati gettati nell’acciottolato tra lamiere e fumi e prostitute e spinge l’occhio verso l’ingresso della ferrovia che regge la punta morta di un vesuvio. L’incanto dell’immobilità.
Il sudore freddo sulla fronte si secca velocemente sulla pelle che diventa di colore verde e la pelle rilascia un puzzo assordante che si mescola con la puzza della spazzatura che straripa dai cassonetti attraverso i quali Spermaceti ancheggia e si dimena per poi proseguire verso altri cassonetti controllando tutti i cassonetti con la febbre addosso e crolla - il colera - alla fine crolla su una panchina verde allungando il corpo e subito contorcendolo per gli spasimi delle feci liquide che s’afflosciano nei calzoni.
L’incanto dell’immobilità. Le puttane di porta nolana occhieggiano e fumano e hanno i fianchi e i seni grossi sotto la porta della città e folla di gente, folla di uomini e donne e un gruppo in cerchio e in silenzio intorno ad un extracomunitario lo cacciano dalla porta con schiaffi e calci denti rotti e sangue dalla tasta, nessuno dei criminali urla. Mezzogiorno. La folla e le puttane di porta nolana. Le sigarette e cataste di vesti e pesce. L’incanto dell’immobilità.
Spermaceti barcolla con i calzoni sporchi e la febbre a premere la pelle, le tempie e flussi di sangue pressano e alla fine s’accascia sulla panchina del cimitero di poggioreale di fronte allo stazionamento dei tram: fuoco verde, fuoco azzurro, fuoco bianco crocefisso in metallo di cristo con braccia allungate e pollice di donna vecchio e rinsecchito palparlo e strofinare il membro oltre la tunica esplode in pezzi di carne e sangue e vampa rossa, vampa viola, abbaglio blu d’acqua dentro il crocefisso galleggia verticale con la testa sulla superficie dell’acqua cielonero annaspando – la panchina gelida di vernata, la panchina verde arrugginito: mitologia contemporanea, mitologia della frammentazione, pustola della condanna perenne fissa sulla testa: soffrire senza morire, vivere nella ripetizione incessante della sentenza, della condanna; il corpo massacrato dalle malattie -
L’incanto dell’immobilità. Sul lungomare muore la vita, l’orizzonte è un muro di cartone che imprigiona il canto della sirena infossando le corde vocali nell’acido degli scogli nella piazza deserta nella città deserta. L’inferno della desolazione. Domenica pomeriggio alle tre. Chiazze di piscio sulla saracinesca della treves. L’incanto dell’immobilità.
Spermaceti si curva sulla panchina contorcendosi nello stomaco e i denti freddi battono schizzi blu (Spermaceti continua a vivere su una panchina, spalle al cimitero) schizzi grigi del mare e il crocefisso sulla superficie dell’acqua affonda nella luce inamidata di un corteo di contorni e mussolini a cavallo accerchiato da giubbe rosse tra i volti dei contadini la pelle è la terra - giubbe rosse e nere mussolinigaribaldi stuprando una bambina contadina stuprando una cerbiatta e un asino in un mantello rosso e verde. Fuoco verde, Fuoco bianco.
L’incanto dell’immobilità. Il massacro di Bronte. L’unità d’Italia. Il tricolore. La restaurazione dei baroni. I briganti. La camorra. Il fascismo. La democrazia cristiana. La camorra. Il boom economico. L’emigrazione in Germania. La chiesa. I morti ammazzati per la strada. La camorra e lo stato. Le gambe spezzate di un mendicante. L’incanto dell’immobilità.
L’ano è l’orgasmo dell’inganno:
un lungo corridoio asettico di fuochi azzurri, fuochi di giallo il freddo del muro fatto di crepe (Spermaceti continua a vivere su una panchina, spalle al cimitero) e creolina sull’acciottolato che balla su e giù senza sosta e le mattonelle che schizzano dai palazzi, schegge verdi schegge gialle (Spermaceti continua a vivere su una panchina) i palazzi crollano la terratrema violenta un grattacielo che cade giù la terra trema luce ossidata le strade riversano mani e braccia e ruote di motorini per i vicoli birre fracassate catene teste sfondate denti spaccati luce rossa luce rosa luce nera della gamba stuzzicadenti a stampella di un mendicante lamento sussurrato gettato tra la fossafolla. Una tigre in calzamaglia rosa e verde si bagna nella fontana di trieste e trento e alza acqua fino al cielo dal mare un’onda enorme, un’onda enorme.
L’incanto dell’immobilità. La miseria è il fiume della vita.
L’ano è l’orgasmo dell’inganno:
(Spermaceti continua a vivere) Un enorme colore indefinibile, un arcobaleno di scale di grigio raccoglie il palco di un teatro tenderosse e mascherelunghe che arrivano alle ginocchia danzando e ondeggiando corpi un bimbomaschera penetra da dietro un asino dalla cui testa escono libri di suoni metallici come tamburi e fuochi fatui fuochi azzurri e luce bianca abbagliante che sfuma nel grigio di un ammasso enorme di cenere unghie spezzate dita grumi di sangue scavare (Spermaceti continua a vivere su una panchina) la cenere sul viso la cenere sul braccio stendere le gambe bucando sacche di cenere nella cenere gli occhi non si chiudono, non si aprono, agitazione nella cenere non respirare per non attirare granelli di cenere respirare per non soffocare. Una macchia grigia amorfa la cenere che non diminuisce corpo nudo di polvere e cenere. I capelli nella polvere. La polvere nei capelli granelli grigi a forma di uncino formano una montagna imprigionando il corpo. (Spermaceti continua a vivere su una panchina, spalle al cimitero).
L’ano è l’orgasmo dell’inganno:
DI-SEGNI
di Bartolomeo Pacifico
Il treno suona house
Parker ha suonato la vita alla velocità della luce
Rossi girasoli danzanti
in fluido concime muoiono a testa in giù
Muraglie celtiche dipinte da writers
delimitano nei sogni di sangue il nulla
Carni trafiggono carni tumefatte
ferite da forchette blande a specchio
Alberi muti albini
parlano al vento di morte saggia
Meditazioni insudiciate imbrattano
il falso regime poetico impallidito
Preti stracolmi di genitali
strofinano con dotte storielle
bambini genuflessi al peccato
Città diluite in grigio
balbettano sopra il sangue del grano etereo
Tossici falchi cannibali
bevono desideri dai morti
in volo d’ambra
portano l’acqua rigonfia al dio assetato
Cadaveri infangati nei cimiteri
aspettano corvi spillati dal cielo
Costruttori di distruzione albeggiano
imberbi di profili come cancri sotto costole tumefatte
Scagliati vomiti di sogno
tracannati al dunque
stendono effluvi afrori eminenti
sul pane della vita
Sostenitori di guerre e pace
Dittatori di follie degenerate
Glottologi politici deterioranti
giudici dell’ombra dai teatri d’oro
spalano letame ai popoli ustionati
Dimensioni alterate
scuotono
al suono
il pomeriggio esotico e immigrato
Il tramonto è rosa come un maiale sospeso al cranio da un macellaio romantico
GHETTO
di Bartolomeo Pacifico
Vetriolo sbudellato nel ghetto
schiera marziano riflussi sonori
Un gatto sifilitico tra sigarette smorte sibila
sgretolato singhiozzante
E siccità discende
I sifoni scaricano sicari marci
piluccati da topi maniaci di grumo guasto
Suonano le suole dei passanti al sudiciume
mentre le barbe dei vagabondi stillano glucosio
sui fuochi del blues
Sotto caseggiati di cartapesta riciclati
Lattine, vetro e sperma posano in mosaico
L’uomo emozionato sfuma nella notte
Dietro l’angolo va in fumo
Come sogni dispersi in cielo
rivolti di ricami all’ombra
IL NOSTRO SORRISO DA TESTA DI PORCO
di Delio Salottolo
per la signora Angiolina
e tutto non è ancora semplice verde di cani sorridenti
profumi di parole assonanti e suoni di profeti nella spirale di lumaca
anime danzano sul dorso del cavallo cieco & sangue ricorda rosso nel ventre convesso in cui si torna & vigna dipinge ancora sorriso su petto di scintille e antiche armi d’assedio & canti di fede rosantica segnano il cammino nel buio di occhi chiusi & anima è sfiatatoio di balena su spiaggia di sale & poi acqua acqua e ancora acqua a rendere fertile il nostro sorriso da testa di porco
gli occhi della vecchia zia sono due spilli che si conficcano nell’aria come a cercare il punto su cui arrampicare il futuro e le parole attorno sono scherzigiochi e lucchetti di tristezza ma gli occhi della zia sono due spilli gioiosi e nella trasparenza del loro spessore è possibile vedere personaggi tra storia e leggenda e vecchi campi e animali da soma nella provincia di Avellino e una inconsueta Palermo stretta tra le magre dita del tempo trascorso
- o’ leone è ferito ma nun è morto ancora - afferma la zia
e la (sua) voce è puro scambio simbolico tra immagini e sensazioni, accarezza una vecchia consapevolezza che sopravvive negli interstizi delle epoche, che insiste tra meccanismi arrugginiti di sopravvivenza, che nei pascoli del sapere trova e ritrova la propria necessità verde di realtà e carne cotta sul fuoco di grossi pali del telegrafo
e arriva molta gente intorno al (suo) letto, persone di tutte le epoche e pronipoti di ogni sorriso o lacrima e tutti siedono su vecchie e sentimentali sedie perchè non viaggiano più in tram mentre un uomo dai grossi baffi neri (le) accarezza le mani crude e (le) spalma grasso animale sulle labbra di foglie in autunno e lei è ritrosa e sente piombare sbarre di betulla arrugginita sul (suo) corpo e ceppi di lamiera ammuffita legare i (suoi) sottili rami inerti
e arriva ancora altra gente attorno al (suo) letto ma lei cerca con gli occhi il corpo assente alle mani, le presenze della giostra fantastica di colori e suoni e pennellate di un cuore trasparente, e lei cammina sdraiata nel suo letto solidificato di occhi e mani, si volta e possono essere una guida i fari innocenti e verdi e caldi di chi riposa al (suo) fianco, sdraiati sulla (sua) delicata sensazione tra incubi ispessiti e realtà sottili
- addò stà Menuccio? Chillo è sagliuto ngoppa e mo’ nun scende chiù! - dice la zia
e gli occhi e le gambe e le pance e le braccia di tutte le persone presenti si rincorrono e si domandano e sorridono e anche quei grossi baffi neri si voltano all’insù e non c’è profumo di garofani come a Montoro Superiore e poi la zia sorride perché Menuccio si trova ad accarezzare il vecchio cane sul soppalco di questo buco di casa
chissà quale soldato morto in guerra prima di congedarsi dalla terra ti ha accompagnato e ti ha fatto luce e ti ha sorriso senza pronunciare parola quando in quei maledetti cunicoli di tufo e umidità cercavi la strada per raggiungere il rifugio e il grosso ventre della famiglia, chissà cosa nascondevano quegli occhi, quelle labbra, quelle mani che stringevano la luce e ti accompagnavano, e pensi che è soltanto sottile e impercettibile confine tra vita e morte e che sei fortunata perché vedi e senti e odori e mangi e strappi cose che non esistono, e queste immagini e presenze hanno dipinto respiri e affanni di luoghi sorridenti, e tutto è sempre in nessun luogo e mai in tutti i luoghi, e tu ci ridevi sopra
e arriva ancora altra gente attorno al (suo) letto e lei stringe e tormenta gli occhi e contrae la testa da un lato all’altro e vede le cose di una lunga vita scappare via e ora sembra che le ha raggiunte, raccolte e superate e ora sono loro ad affacciarsi (a lei), a penetrare (in lei) senza grazia e delicatezza e (la) offendono perché lei ora si trova nell’internamento di letto e lenzuola bianche e quegli strani sorrisi e quelle mani premute sul viso e bagnate di acqua salata sono ferri incandescenti e lacerazioni sulla pelle aggrovigliata
- prima sono venuti mammà e papà e mi hanno dato nu’ bacio e m’hanno detto che aggià i’ appresso a loro, che loro m’anna fa vedere la strada - dice la zia
e poi chiude gli occhi e li riapre varie volte e c’è qualcuno che esce dalla stanza e altri che parlano in silenzio in un angolo e qualcuno che accenna discorsi e parole e dice che è meglio che li lascia andare e che va a fare appresso a loro? ma la zia ha gli occhi chiusi e li muove al di sotto delle palpebre con un ossessivo movimento circolare e ci sono sempre quegli occhi verdi e lucidi che cercano appigli e rimangono spalancati e inermi mentre i grossi baffi neri si sdraiano al fianco della zia
c’è il Re dei Topi nel cesso e il cuore ti salta in gola e sei terrorizzata perché c’è un topo che si annusa nel cesso e un topo non è mai solamente topo e pensi alle strane visioni e hai paura e c’è quella donna che ti dice sempre che il marito morto è diventato un topo che la tormenta e allora cerchi la via per uscire da quella casa che è da un lato al pian terreno e dall’altra al primo piano e raggiungi la porta e la apri e di fronte a te si trova una lunga ombra di uomo che non è legata a nessuno e che blocca la porta e non ti fa uscire e forse senti ridere ma non è importante e allora corri nel cesso e non c’è più il Re dei Topi
la stanza oramai rigurgita di gente e persone che sovrappongono le loro ombre, che allacciano gli abbracci, che accarezzano le mani e cercano con gli occhi il dolore di tutti e ci sono ormai troppe persone perché i vivi e i morti assieme sono molti e (la) opprimono e lei si guarda attorno sospettosa perchè si trovano l’uno al fianco dell’altro ma non parlano tra di loro e allora si chiede perché non giocano e non scherzano come tanto tempo fa quando si era tutti insieme ma adesso c’è questo velo opaco di vimini intrecciati e fradici di lacrime e lei allora non sa più se è viva o morta o entrambe le cose ma non (le) interessa perché ci sono tutti ma poi spalanca la vista e osserva il (suo) corpo nel letto e prova disgusto
- io me ne voglio andare, nun ce la faccio più a sta’ in prigione, io me ne voglio andare da qua! - dice la zia
e tutti allora di nuovo a parlare, a cercare vie da imboccare, a tastare nel buio pareti inesistenti, e i vivi sono preoccupati mentre sembrano allegri i morti perché è molto tempo che l’aspettano e infine si è decisa la vecchia zia a raggiungerli e allora loro (la) chiamano e dicono che tutto ora è giusto e perfetto ma poi ci sono quegli occhioni verdi e lucidi che (la) stringono e che (la) inondano del senso della vita e della disperazione della morte e (le) fanno sentire ancora attaccamento ma gli occhi a forma di spillo oramai rincorrono paesaggi insoliti dove si sovrappongono vacche pezzate e assi di ferro dolce, grigi tetti di mattonelle e cinghiali che si grattano, decide di addormentarsi per godere ogni istante del passaggio da masse di pensiero vitale a profumi di sogni di morte
e
corre con i (suoi) fratelli e sorelle sui campi verdi dell’infanzia
e sorride e non si volta più indietro perché resta soltanto
…l’ultimo soffio…
e adesso tutto è semplice verde di cani sorridenti
profumi di parole assonanti e suoni di profeti nella spirale di lumaca
anime danzano sul dorso del cavallo cieco & sangue ricorda rosso nel ventre convesso in cui si torna & vigna dipinge ancora sorriso su petto di scintille e antiche armi d’assedio & canti di fede rosantica segnano il cammino nel buio di occhi chiusi & anima è sfiatatoio di balena su spiaggia di sale & poi acqua acqua e ancora acqua a rendere fertile il nostro sorriso da testa di porco
LINO FOFFANO
La letteratura
Deve cavalcare
Verosimiglianza
Per andare verso
Lo spazio reale.
Verosimiglianza:
lievito realtà
la pazienza d’animale
salva spesso l’animale
e permette forti pale
per dissodare oltre il male
attenti! Nel nome
di Lino Foffano
splendono due “NO”!
Se la poesia non è questa
Non so fare bollire la crosta!
Metto oggi la testa nella cesta,
cammino veloce sulla pista,
con la speranza di un poco di posta
dopo il fulmine,
arrivano le rane
pronte a cantare
naturalità
del libro e della vita
sta nel transito
l’interiorità
si mostra con i fogli
per chi li scrive
ecco Natale!
Babbo natale balla
La canzoncina
Il gatto umano
Spara la frenesia
Di tolleranza
Il desiderio, fatto oggetto, sta sempre sulla soglia del possibile e dell’impossibile
E’ facile che l’ex rivoluzionario finisca per diventare un moralista, specialmente se non teme la fame
I genitori, troppo spesso, fanno figli per animare favole assassine
dettata dal ghetto
di Carmine Masiello
non sono solo
nel parco c’è una panchina che mi aspetta
un sostegno alla più progredita delle azioni umane :
il guardarsi intorno
fermo e distaccato
un vecchio in un corpo extra temporale
e comunque non è più una idea che
tutto è in me
senti come sale se solo ci dimentichiamo della caduta
le pale dell’elicottero iniziano a girare e tu mi parli di possesso
quale guerra ancora
il ritmo può essere anche una forma di preparazione
e se ancora defeco sulla tua struttura da rabdomante
che futuro riesci a scorgere
damigella del generale inferno
dell’ammiraglio inverno
condanna della domenica
onirico sfondo di dimenticanza
e
quella sembianza stellare
in una notte di luna piena ?
marte è il solo ad avere collocazione chiara rossa dai bordi definiti
marziale sposalizio di tragedie
culo e sostegno metallico disperdono calore
allora il legno?
io tifo o per il cartone o per i terreni molli morbidi
pochi terreni per pochi viziati della caduta
non parliamo di lavoro
per la cortesia del regno a cui siamo spillati
per il non cambiamento che dobbiamo agli elementi traslati
per le spiegazioni che si deve,che sono da darsi,che bisogna dare
se
cambiamo la costruzione che si deve fare,che è da farsi,che bisogna fare
per il non cambiamento !
sotto selvaggia elettrificata noia mercantile
La fuga e il Segreto di Napoli
di Umberto Duca
C’era una volta, nella città di Napoli, una grande statua di Giuseppe Garibaldi che un bel giorno decise di andare via da lì.
<<Questa città mi ha proprio stufato – diceva – E poi, diamine, mi si sono addormentate le gambe a stare in piedi!>>
Così in una notte calma e piena di stelle decise di scendere dall’obelisco sul quale l’avevano sistemato e correre a prendere il treno.
La stazione era proprio lì di fronte e così, lentamente (s’era tutto intorpidito), passo dopo passo si presentò dal capostazione chiedendo un biglietto per Losanna in Svizzera.
Nessuno, fatta eccezione per il capostazione, s’accorse di questa partenza se non il mattino dopo; <<Peppino! Peppino! Se n’è juto Peppino! E buono ha fatto!>> s’udì gridare dal barbone che tutte le notti dormiva ai piedi della statua, <<Mo me ne vaco pure io!>>, aggiungeva un suo amico. I due partirono all’istante da Napoli.
Quando poi la notizia si diffuse in tutta la città cominciarono a fioccare interpretazioni sull’accaduto come fiocca la neve sulle cime innevate.
Chi si riteneva sorpreso di questa scomparsa, chi affermava che prima o poi doveva accadere e chi gia filava spedito alla chiesa del Duomo chiedendo una spiegazione a San Gennaro, che da parte sua pareva non voler dare molta importanza al fatto.
Gli intellettuali si divisero: quelli ch’erano dalla parte di Garibaldi affermavano che la statua aveva fatto benissimo, perché qui a Napoli era stata trattata troppo male. Mai un restauro, una pulitina e i ragazzini che gli scrivevano cose stupide addosso con le bombolette di vernice, facendolo sentire stupido, e così via.
Quelli che invece gli eran contro sostenevano che la statua aveva commesso un grande errore fuggendo dalla città a quella maniera. Non aveva il diritto di partire in quel modo; di sorpresa e senza darne notizia ad alcuno. Era un insostenibile affronto fatto a Napoli e a tutti i napoletani. <<Se Napoli non gli piaceva –dicevano- avrebbe sempre potuto fare qualche cosa per cambiarla, e non scappare via a mò di latitante!>>
Intanto da Poggioreale ai Quartieri Spagnoli era tutto un vociare confuso; le signore dei bassi più bassi eran tutte concordi nel sostenere che quella statua aveva fatto un grande sbaglio e che alla fine erano fatti suoi, ma alcune di loro piangevano una specie di lacrime di coccodrillo perché ne avevano già nostalgia.
Le signore dei bassi più alti sembravano infischiarsene, ma sotto sotto covavano la stessa sua idea e qualcuna di loro gia aveva pronta la valigia completa di spazzolino.
Gli studenti da parte loro prepararono una grandissima e rumorosa manifestazione piena di striscioni colorati col su scritto: “Garibaldi è juto a guerra, s’è accattato ‘e caramelle, se l’è mise dinto ‘o cazone, è scoppiato ‘o mutandone!” e ballavano intorno ad una statua di cartone fatta da loro, ( che rappresentava ovviamente Garibaldi) e sembravano divertirsi.
Il sindaco convocò seduta stante l’intera giunta comunale che venne riunita la sera stessa. Vennero proposte una valanga di soluzioni al problema, ma le più importanti furono queste:
il consigliere Sconsigliabile disse così <<Miei cari colleghi, io proprio ieri ho inaugurato una fabbrica che produce statue, col vostro permesso e ad un modico prezzo, posso rimpiazzare la statua che è andata via con un’altra nuova fiammante!>>.
L’assessore De Statua disse invece così <<Mio caro Sconsigliabile io ho una fabbrica di statue non da ieri, ma dall’altro ieri, e propongo che la mia fabbrica sostituisca tutte le statue della città. Perché, pensateci bene miei cari colleghi, se una di esse è andata via possono farlo anche tutte le altre. Se dunque mi darete credito eviteremo un mare di problemi e prima che possa accadere una cosa del genere io, con la mia fabbrica, gia le avrò bell’e sostituite tutte quante!>>
La giunta, sindaco compreso, applaudì a questa proposta che in quattro e quattr’otto fu accettata e diventò un nuova legge.
L’intera assemblea fu scossa solo quando l’usciere Pensatecibene cercò di intervenire nella discussione, ma fu coperto dai fischi e nessuno riuscì a capire quello che andava dicendo.
Intanto la statua era arrivata in Svizzera ed aveva trovato il tempo per imparare a sciare e rilasciare interviste ai curiosi giornalisti svizzeri circa la sua fuga da Napoli. E dato che
Una di queste è nelle mie mani, eccola:
Sono scappato da Napoli perché mi ero stancato di quel cielo e di quell’aria, di quelle strade e di quella piazza, di quei colombi e di quei fili del tram, di quelle facce e di quelle teste! Insomma, signor svizzero, mi ero seccato più d’un secchio d’acqua nel deserto! E adesso non ci tornerò mai più, qui sto davvero come un re. E chi mi smuove! Dovranno costruire un mondo solo per me, con una nuova Napoli, affinché io ci ritorni. E poi in fondo sono o non sono l’eroe dei due mondi? E che diamine!
Questa ed altre centotre confessioni furono spedite dal presidente svizzero (che la sapeva lunga) ai bambini napoletani che ne studiarono con molta attenzione il contenuto restandone molto impressionati. Arrivarono alla conclusione che nella città di Napoli c’erano un sacco di cose fatte male, altre fatte per metà ed altre ancora non fatte per niente.
Lessero e studiarono talmente a lungo la confessioni di Garibaldi, che intanto divennero più grandi e, non appena lo furono abbastanza per poter scrivere, scrissero lettere a tutti i napoletani spiegando loro il Gioco Delle Belle Statuine.
In principio nessuno sembrò apprezzare queste lettere, anzi, molti non le leggevano nemmeno e molti altri le davano in pasto al cane dopo averle lette.
Ma quelli non s’arresero e spedirono altre lettere a tutti i napoletani spiegando loro il Gioco del Nascondino. Al che le lettere date in pasto ai cani diminuirono sensibilmente e naturalmente più napoletani ne lessero il contenuto.
Forse s’era trovata la strada giusta per far ritornare la statua di Garibaldi al suo posto?
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Ma i bambini napoletani non s’arresero e capirono che bisognava insistere, così dopo una settimana arrivò nelle case di tutti i napoletani una lettera che spiegava per filo e per segno il Gioco del Facciamo Finta Che Io Ero… Quest’ultimo, non se ne comprese bene il motivo, entusiasmò a tal punto l’intera città che finalmente fu chiaro come il sole che s’era trovata la strada giusta per far ritornare Garibaldi al suo posto.
Difatti, la lettera che illustrava il Gioco della Campana, spedita un’altra settimana dopo, ne fu solo una sfavillante conferma, e così da allora vennero spedite altre cento lettere di giochi, tutte apprezzate e lette da ogni napoletano, e, come per miracolo, la città cominciò a popolarsi di “mecenati del gioco” e di “artisti giocatori”. I cani da parte loro dovettero arrangiarsi e dar la caccia ai gatti (d’altra parte s’accorsero che le lettere erano indigeste), San Gennaro invece decise che non c’era più nessun motivo di fare il suo famoso miracolo e partì per i mari del sud.
Così un bel giorno accadde che senza nemmeno avvedersene, vivere a Napoli divenne un Gioco da Ragazzi.
Da quel momento studiosi di tutto il mondo si sforzarono di individuare il segreto di questo cambiamento, ma nessuno ci riuscì a dovere e così quello divenne il più grande segreto di Napoli.
Ah, dimenticavo, Garibaldi, venuto a sapere di quello che era accaduto a Napoli, grazie alla grande abilità dei bambini napoletani, ritornò al suo posto ripetendo in continuazione che a Losanna non era poi stato così tanto bene come aveva creduto.
ALLA MANIERA DI BUKOWSKI
di Gianluca Paletta
Arrivi a un punto tale
Da non aver più parole,
Scrivi come sto scrivendo ora io,
Senza elaborazioni,
Senza metafore o giri di violino.
sai che qualcosa è andato storto,
Cerchi negli scarti
Nelle pattumiere, nei cimiteri,
Corri dove un tempo c’era qualcuno che somigliava vagamente a te stesso,
Riduci questa bocca un colabrodo
Affinché dei fasci luminosi possano trapelare
E giungere sottili e aguzzi, in quel luogo che un giorno ha riconosciuto o udito
Vagamente un tuo vocabolo, una pronuncia o un lemma…
Al fine di sventagliare questa fibra, questa falda vermiglia che
Solitamente chiamiamo lingua…
Dove vi sono posti frammenti di ciò che
Un tempo abbiamo cercato di dire…
Brandelli di ciò che in virtù di tale maledizione abbiamo
Nostro malgrado Racimolato e accolto…
Corriamo verso concise formulazioni
Poiché queste hanno la capacità di dilatare la coscienza,
Di rastrellarla…di incorniciarla….in quella parete
Che muove l’ombra…magari il suo custode
Che vive in virtù di tale meraviglia
FRAMMENTI DI NAPOLI
(il viaggiatore)
di Fabio Rocco Oliva
Alfredo se ne va in giro con le mani nelle tasche. Ha la testa affondata nel petto grasso. Una sciarpa e un capello di lana neri. Il corso di Ercolano è una lunga strada dritta fatta d’acciottolato. Ed è notte. Alla fermata dell’autobus Alfredo va a sedersi su un pezzo di lamiere. Il freddo del ferro gli penetra i calzoni e gli fa bruciare le chiappe. Batte le palpebre. Passa qualche macchina. Qualche motorino. Poi arriva il 455, Alfredo ci salta su e arriva alla ferrovia. Qui scende dall’autobus e va a sedersi su una panchina. Le spalle alla statua di Garibaldi. Poi fissa l’ingresso della ferrovia. Batte le palpebre. Qualcuno aspetta un autobus. Ci sono tre puttane grassottelle. Qualche travestito e una donna africana seduta su una panchina. È seduta lì ormai da un mese. È immobile. Alfredo non caccia le mani dalle tasche. Poi si alza. L’umidità penetra nelle ossa. Alfredo sale su un autobus: il 470. Oltre il finestrino c’è il tassista abusivo grasso e pelato che parla con una donna ritardata, magra, con gli occhiali e una camicia. Il 470 parte e torna dopo circa un’ora. Il tassista è ancora lì. Alfredo scende dall’autobus. C’è qualche autista vicino al tassista. Saranno in quattro a parlare con la ritardata. Alfredo va a sedersi su una panchina. Gli autisti prendono in giro la ritardata. La donna africana si è alzata ed è andata a pisciare dietro un cespuglio. Poi è tornata a sedersi. Ha una coperta sulle gambe. Alfredo da le spalle a Garibaldi. Batte le palpebre in direzione della ferrovia. È arrivato il 430. Ci sono degli uomini che dormono in un’aiuola circondati da cartoni di vino. Alfredo si alza. La ritardata è ancora lì. L’africana è un mese che è lì. Non dorme. Alfredo sale nel 430. E’ seduto negli ultimi posti. In un angolo c’è un ragazzino che sta fumando del crack. Dal gruppo del tassista si stacca un autista che mette in moto il 430. Una delle puttane è salita in una macchina. Le altre due parlano e ridono. C’è una macchina nera che le controlla per tutta la notte. L’africana si è alzata per andare nuovamente a pisciare ed è passata vicino al gruppo del tassista. Dopo un’ora torna il 430. Alfredo scende e va a sedersi su una panchina. L’africana. Il tassista. Le puttane. Gli uomini nell’aiuola. Le spalle a Garibaldi. Alfredo batte le palpebre in direzione della ferrovia.
ALCUNE ATROCITA’ n. 4
(la vita del signor Q.)
di Delio Salottolo
Il signor Q. è uscito tardi da lavoro: doveva terminare alcune pratiche importanti. La sua macchina è guasta ed è costretto a prendere il pullman. Alla fermata di piazza Garibaldi il signor Q. prova un violento disgusto nel vedere extracomunitari sporchi e ubriachi, tossici sdraiati a terra a riposare le cervella, barboni che si muovono trascinando piumoni sporchi di urina e merda. Quando il pullman finalmente arriva, il signor Q. sorride e ha preso una decisione. Giunto a casa, mangia un boccone, si cambia d’abito e indossa un vestito completamente nero e stretto. Ruba le chiavi dell’auto della madre che, nel momento in cui il signor Q. silenziosamente apre la porta, gli dice di non fare tardi perché domani deve andare al lavoro. Decide di recarsi al terminale della circumvesuviana, ferma l’auto, accende le quattro frecce, esce con una borsa in mano, dinanzi a lui si trova una vecchia barbona che mormora qualche vecchia canzone, il signor Q. estrae una mazza ferrata che aveva acquistato in un negozio di armi antiche e con un solo colpo le sfonda il cranio facendo schizzare sangue e cervella ovunque. Lì vicino si trova un tossico semiaddormentato su una panchina che non si è accorto di nulla, assesta un colpo violentissimo e salta via un occhio e parte della mandibola fracassata rimane incrostata alla mazza. Il tossico rotola a terra e rantoli fuoriescono dal quel che resta della sua bocca. Il signor Q. prende tra le mani il membro, si masturba ma non riesce ad arrivare: voleva schizzarglielo addosso nel momento esatto della morte. Si rammarica di ciò e gli occhi gli si gonfiano di lacrime; intanto nota che il pullman è arrivato al capolinea, ovvero la fermata a cui deve scendere. Entra in casa, arriva la madre che gli sorride dai suoi denti cariati e spezzati, gli dà un bacio umido sulla guancia e gli dice che la soglioletta bollita è pronta.
Novantanove per cento
di Salvatore Oliviero
Lei è Caino
Che dorme sotto il mio letto di rose.
Ogni notte lei esce fuori
Salta sopra di me
E con un bisturi apre il mio costato
Per inserirvi dentro una videocassetta
Sulla cui etichetta c’è scritto “ pasto nudo “
Lei è un serpente
Attorcigliato intorno a questa fiamma
E sulla cima di questa fiamma
Con la sua lingua lei ha cancellato
La linea del tropico del Capricorno
Con la quale io riuscivo a tenere
Distante la mia anima dall’argilla.
Lei è la prossima guerra mondiale
Che esploderà dentro l’insegna al neon
Di un negozio di ferramenta
E io per lei sarò
Come il cuore di Dio munito di airbag
Come la pausa di una semicroma
Come il telecomando dell’aria condizionata
Ognivolta lei si trova nei posti
Più caldi della terra.
E dal sedile posteriore della sua macchina spaziale
Io sparerò al cigno nero
Che rubò una corona di diamanti dalla sua anima.
Ma un piccola voce che proviene da un altoparlante mi dice:
“ Non darle assolutamente retta
Il novantanove per cento di quello che ti vorrà dire
Non è altro che una stretta di mano
Di monossido di carbonio “
Floppy disk
di Salvatore Oliviero
Quando la bocca del lupo cattivo
Si apre e la sua lingua pende fuori
Tu mi prendi in ostaggio
Tu mi trasformi in un fantasma
Danzatore del ventre
Poi rubi del petrolio dall’Arabia Saudita
Con la quale tu sporchi la mia anima
Presa a morsi da pesci e vermi
Nel fondo dell’oceano.
Ma perché io dovrei stare qui?
Qui con i polsi legati
All’asta di una buca di un campo di golf
Aspettando una tua chiamata
Sul mio telefono-aragosta
Quando invece tu sei
Ai confini della terra
Nuda e timida
Con una macchina fotografica in mano
Intenta a fare scatti a tutto ciò ch’è game over
Dove il mio cuore ha la capienza di un floppy disk.
Come un pinguino che sta pianificando
La sua fuga dalle gole dell’inferno
Io sono un organo vitale
Che tu hai venduto su internet
Io sono un megafono attraverso il quale
Tu puoi gridare soltanto le consonanti.
Io ti prenderò a calci
Io ti cancellerò su un portacenere
Caduto dal cielo
Ma i tuoi occhi che strisciano
Come un ragno sotto la presa della corrente
Mi hanno dato l’ultimo rigo di questa pagina
Circondata da un esplosione di pietre ingioiellate.
E quando io avrò scritto
Sopra questo ultimo rigo
La parola Goodbye
E quando io avrò pigiato
Il tasto del riavvolgimento veloce
Del mio videoregistratore
Prendi un bicchiere e riempilo
Con l’acqua dei “ Pesci “
Tu che sei nata sotto il segno zodiacale del Leone.
Giubbe rotte
di Andrea Vespucci
Sprofonda il letto da cui ascolto incomprensibile verso
Rifletto ciò che avete creato: l’oscurantismo
I suoni da voi emessi riempiono di umidità il volto più scarno
I fuochi delle rivoluzioni non sono bastati
La vostra febbre morale è acido muriatico
Il vostro pensiero è il pianto del primo uomo che guarda le stelle
Come antrace il ruvido silenzio
ALCUNE ATROCITA’ n. 3
(la vita del signor Q.)
di Delio Salottolo
Il signor Q. è tornato prima a casa perché non aveva straordinari da fare. E’ davanti allo specchio e sa che il suo contratto sta per scadere. Gli hanno, però, promesso il rinnovo per altri sei mesi. Il signor Q. è contento e si vede bello. La stempiatura lo rende molto affascinante e ha deciso di uscire stasera. Indossa un pantalone classico grigio, una maglia a collo alto nera e una giacca dello stesso colore: il profumo spruzzato sui vestiti, sotto le ascelle, tra le gambe. Prende l’auto migliore: una Audi con i vetri fumé e si reca al bar dove è solito festeggiare e divertirsi. Ordina da bere: gin e acqua tonica ed è appoggiato al bancone su di un gomito massaggiandosi il mento con la mano destra: una posa che ritiene assai seducente ed efficace. Quasi subito gli si avvicina una ragazza alta e bionda, ben truccata e con un vestitino nero, stretto e corto. Il signor Q. offre da bere e le racconta il suo lavoro, la sua vita, le donne che ha avuto e lei è già innamorata quando lui la invita a fare un giro in auto per andare in un posto tranquillo e prendere una bottiglia di champagne. La stanza d’albergo è molto elegante e lei sfila immediatamente le scarpe alte e mostra dei piedi deliziosi: è ubriaca. Si concedono due coppe di champagne a testa e il signor Q. la prende per un braccio e la fa sdraiare dolcemente sul letto, si spoglia e lei gode nel vedere il suo enorme membro. Lei supplica di poterlo toccare e leccare: il sacro cazzo divino. Il signor Q., però, è un duro e la monta con violenza e lei grida dal piacere folle e lo vuole anche in culo, lei urla basta ma lui insiste e lo fanno sette volte, per ore e ore e lei dice che non ha mai incontrato un uomo così e lui dice che ne ha fatto godere di donne e la prende per i capelli per farsi succhiare il membro ancora in erezione e le ordina di bere il sacro nettare divino. La riaccompagna a casa e sono quasi le sei del mattino quando ritorna. Il signor Q. è ancora davanti allo specchio e finalmente è riuscito a masturbarsi, erano settimane che il minuscolo membro gli rimaneva floscio tra le dita. Vede gli schizzi scivolare sullo specchio quando entra la madre che, donna discreta, capisce tutto ed esce, urlandogli da fuori che se vuole gli prepara la colazione.
FRAMMENTI DI NAPOLI
(la mancanza)
di Fabio Rocco Oliva
E ha fermato il camion in un angolo della stretta piazza d’ogni bene e poi scende e prende la scopa e poi è circa l’una di notte e prende a raccogliere la spazzatura e sposta un bidone toglie con l’altro collega quello che si può subito mettere nel furgone e triturarlo poi svuotano ad uno ad uno tutti i cassonetti e poi via altri cassonetti e altra spazzatura ed è l’alba e tornare a casa mentre la moglie si è appena svegliata s’è lavata ha preparato il caffé e il marito ha aperto la porta e siede al tavolo della cucina e beve il caffé con la moglie che è già pronta e ha già tutto nella borsetta e bevono lei accende una sigaretta due tiri e glie la passa poi si alza gli da un bacio sulla guancia sinistra e va via chiude la porta e scende le scale aspetta l’autobus il marito va a letto è mattina ormai e si stira le ossa nel letto e si lascia scivolare dove aveva dormito sua moglie per raccogliere il calore di lei che ha appena preso l’autobus e gocce di nebbia intorno e il Vesuvio poco visibile e il marito si addormenta e la moglie arriva in fabbrica e comincia a lavorare alle suole delle scarpe in uno scantinato a Grumo Nevano e poi pausa pranzo e poi ancora lavoro e il marito si sveglia e la moglie finisce di lavorare poi prende l’autobus il marito ha cucinato il marito ha mangiato e ha preso la divisa prepara un caffé il piatto per la moglie sul tavolo fuma ancora e la moglie apre la porta e il marito sta finendo di fumare poi passa la sigaretta alla moglie che ha il volto allungato e pallido e il marito si alza la moglie odora il piatto lui le bacia la guancia sinistra lei getta la cicca e mangia poi si lancia sul letto e lui per le scale e per i cassonetti lei si stira il corpo sul letto e scivola dove poco prima dormiva il marito per prendere un po’ di calore e il marito è in strada. Quasi natale. Suonano gli zampognari.
MARGINALIA
a cura di Luca Caserta
Quando compro un libro, mi preoccupo sempre che abbia margini spaziosi: e non tanto per amore della cosa in sé, che pure fa piacere, quanto per l’opportunità che il margine ampio mi offre di scrivervi a matita le idee che mi vengono (…) Quando quello che voglio annotare è troppo lungo perché rientri nella stretta striscia di un margine, l’affido a un foglietto che inserisco fra le pagine, e mi preoccupo di fissarcelo con una goccia impercettibile di colla.
Edgar Allan Poe
Un tormentato quieto inferno
And the things behind the sun.
Nick Drake
Negli ultimi tempi a Napoli si cammina a testa bassa, contando i ciottoli alle strade. Non si ha il respiro del paesaggio.
Non si cura il mestruo della città, si lascia che scorra, che si faccia ombra, che si estingua nel mare, come le lame dei coltelli nascosti dallo squarcio di luce sulla copertina del Gomorra di Roberto Saviano.
Si cammina per tornare a casa, come se la sirena annunciasse il coprifuoco, cercando di essere invisibili. Oggi a Napoli si producono strani frutti, come quelli cantati da Billie Holiday.
Gli alberi del Sud producono uno strano frutto, sangue sulle foglie e sangue alle radici, corpi neri che ondeggiano nella brezza del Sud, uno strano frutto pende dai pioppi. Una scena pastorale nel valoroso Sud, gli occhi sporgenti e la bocca storta, profumo di magnolia dolce e fresco e d’improvviso l’odore della carne che brucia. Qui c’è un frutto che i corvi possono beccare che la pioggia inzuppa, che il vento sfianca che il sole marcisce, che l’albero lascia cadere qui, c’è uno strano e amaro raccolto.
Napoli si lascia cadere come un frutto marcio, come i Santi del suo seicento pittorico nella posa di un’eterna estasi. Ma in questo io non trovo dignità.
Come il San Sebastiano di Battistello Caracciolo, fermo al palo senza dolore, che contempla più la posa classica, così Napoli è ferma a contemplare se stessa, come un frutto che pende da un pioppo.
Attendiamo l’ingresso in città delle cose di gran peso, che riescano a imbarcare per mare gli intellettuali napoletani, più sensibili alle qualità divulgative che a quelle propriamente creative, che preferiscono cadere nel convenzionale, per rigor di vocazione, ormai esausti, quasi inoffensivi.
Eppure guardando bene a volte capita di prender le misure ai sarti. Bisogna solo tirare i conti al tempo, rivedere le carte, ripensare camminando.
In Piazza Monteoliveto da alcuni giorni è comparso un grande manifesto pubblicitario per una rassegna teatrale organizzata da Il Pozzo e il Pendolo, il teatro in Piazza San Domenico.
La strada che da Piazza Carità porta a Monteoliveto, conserva la bellezza di un luogo magico. Tra il palazzo dell’INA e l’ ammasso metallico in onore di Salvo d’Acquisto, via Morgantini si getta nel portone di un palazzo ripreso nel 1954 da Vittorio De Sica per un episodio dell’Oro di Napoli, quello con
Ed è un luogo di metà anni cinquanta, spopolato tra le luci notturne della piazza, come immerso nella nebbia, a rifare i casamenti torbidi e antichi. Ricorda le piazze dipinte da Giorgio De Chirico.
Il manifesto, che presto verrà coperto - sì perché i manifesti hanno vita breve il tempo di essere digeriti - riporta un’immagine ingrandita di un album di un cantautore inglese degli anni settanta.
Credo che sia la prima volta che a Napoli venga presentato con così grande merito di vista il timido Nick Drake e spero che chi ha scelto l’immagine ne abbia calcolato l’importanza.
Il dipinto tratto da Pink Moon terzo ed ultimo album di Nick Drake inciso nel 1972, fu realizzato da Michael Trevithick e richiama i maestri surrealisti.
In verità non una gran cosa, tutto perso a cucir le tasche a Mirò e Magritte.
Pink Moon resta il testamento di un artista che in vita fu compreso poco, l’atto finale della sua musica da camera eseguita come i blues del Delta, ma tra i colori bruni delle campagne inglesi.
La sua rivoluzione calma e serena leviga l’aria e la distribuisce ordinatamente così da eliminare il rischio che di lassù si possa volar via cadendo.
Così Plutarco descriveva la luna, la stessa dove Drake poggia i piedi.
L’album contiene un brano, Things behind the sun, una delle canzoni più complete del secolo scorso. Sembra un acquerello, i versi più belli di Coleridge, un film muto, un viaggio in treno, il bacio rubato di un’amante, una goccia di pioggia, il silenzio della notte.
La voce di Drake trascolora da strade assolate a ricacciare il buio oltre la siepe.
Questo ripensavo guardando il manifesto in Piazza Monteoliveto.
La strada ruzzola giù verso via Monteoliveto, ti frena solo la fontana eretta in onore di Carlo II d’Asburgo, con la statua del Cafaro. In alto, incastrata in un angolo, la più bella chiesa di Napoli, Sant’Anna dei Lombardi.
Le ho fatto visita ultimamente, imbrattata ancora di polvere, con i marmi quattrocenteschi chiusi nei veli di plastica.
Nella piazza si è consumato un gioco indiretto di silenzi, la chiesa ferma nel suo restauro, io fermo a riguardare la luna rosa di Drake, le volanti dei carabinieri ferme al palo come i cavalli davanti ai saloons.
Un tormentato quieto inferno.
E all’improvviso ho alzato la testa verso l’alto a riguardare i tetti, immaginando che Things behind the sun rallentasse i passi della gente. Quel luogo è diventato calmo, il principio di una stasi. Tutto il rumore della città ricacciato via da un ricordo di fragile poesia.
Forse, in questo momento, soltanto la fragilità può correggere la storia di Napoli, riordinarne la tradizione cucendo i buchi al vestito, liberare le strade dall’insopportabile tanfo del popolo, limitare l’invadenza dei gesti, rendere pudico il suo corpo.
Napoli dovrebbe scoprire le cose dietro al sole.
Hyria, rara testimonianza
La rivista fondata e diretta da Aristide
In un tempo in cui vegetano come funghi pubblicazioni ed iniziative editoriali sorte con lo scopo di attingere ai pur generosi anche se esclusivi finanziamenti messi a disposizione di testate di discutibile rilevanza o magari espressione di minigruppi partitici e di associazioni parlamentari costituiti ad hoc, sono rare le testimonianze come quella offerta da “Hyria”, periodico culturale e letterario fondato nel 1972 e diretto, fino ad alcuni giorni or sono, da Aristide
Era appena rientrato dalla tipografia per gli ultimi ritocchi al numero in corso di stampa, quando Aristide
Per commemorarlo, familiari ed amici si sono ritrovati alla Collegiata di Nola. Il sindaco, dott. Felice Napolitano, ha ricordato per l’occasione le doti morali, professionali ed artistico-culturali di
C’è da augurarsi che qualcuno all’altezza del compito raccolga con lo stesso impegno (impossibile, sembra, sperare con la stessa cura, competenza e raffinatezza) la sua eredità giornalistica, facendo vivere a lungo Hyria, della quale sono consulenti editoriali, non a caso, Giorgio Bàrberi Squarotti, Raffaele Giglio e Giancarlo Menichelli .
(a. p.)
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