ANCORA PATOLOGIA di Fabio Rocco Oliva
La patologia non è una condanna morale: patologia è concreta sevizia e incostante infezione di quello che c’è - nella nostra carne – tra i neuroni catatonici del cervello
Che cosa è la patologia?
NO!
Dove è la patologia?
CORRIDOI DI OSPEDALI la gente è buttata su barelle arrugginite tra mura che crollano - topi tra medicinali - infermieri che dormono su divani o materassi avvolti in lenzuola sporche su pavimenti sporchi a guardare televisione invece di lavorare - c’è gente dal corpo orribilmente sfigurato da malattie (anche infettive) arrangiata su barelle in corsia dove passa un giovane che va a consegnare una pizza a qualcuno che fa la notte ad un parente in corridoio – non bastano quei pochi infermieri o dottori che fanno il loro mestiere con passione lavorando duramente con i malati che vedono morire, non basta – qui si massacra il corpo, la dignità, la vergogna e la riservatezza che vuole chi sta per morire
NELLE TESTE DEI GIOVANI LAUREATI per insegnare bisogna pagare lo stato per avere l’abilitazione e seguire un corso e pagare il corso e quindi non avere tempo per lavorare e guadagnare per pagare il corso per l’abilitazione – solo chi ha soldi può comprarsi il corso per l’abilitazione – non bastano (quei pochi) eroi che s’ammazzano per pagarsi l’abilitazione – l’inganno dei concorsi pubblici: la prova scritta vale 20, la prova orale 80: è chiaro che in questo modo lavorare sarà possibile solo a chi rientra nel giro delle amicizie – o un giovane ingegnere che lavora per contratti temporanei a 300 – 400 euro al mese nella speranza di essere trasferito all’estero per qualche mese e guadagnare in più per la trasferta - qui si massacra la speranza, si mozza il capo alla sopravvivenza futura
SPAZZATURA diossina amianto bruciando per la strada i fumi tossici si vanno a infiltrare nel corpo di chi respira e genera TUMORI – un organo interno del corpo impazzisce e si distrugge e deforma il corpo finché non si muore – e i politici e la camorra e la chiesa e i santi e i partiti e gli ultras e gli intellettuali mangiano sulla nostra morte – a Tavernanova c’è una fabbrica seminascosta – R.A.M.O.I.L. – dalle cui ciminiere metalliche di notte si vedono polveri ingrossare verso l’alto e una puzza che pizzica la gola: il fumo tossico è silenzioso e di notte non si vede – da un po’ di tempo a Tavernanova nascono bambini con leucemia e molti uomini e donne muoiono per tumori
PAZZI E RITARDATI morendo per le strade adesso o nelle case di cura e non più in manicomi, in casa di cura dove del cranio resta sono un inutile involucro di carne e ossa – perché la gente che ci lavora dentro e specialmente chi gestisce le case di cura tratta i malati come bestie da macello – non bastano quei pochi che lo fanno con passione, non salvano tutto il fallimento del sistema –
dove è patologia?
scarnificare e devastare noi strutturalmente
Perché patologia?
Perché l’Italia è un non-stato.
Chiesa, Stato e Camorra: Anarchia è Patologia.
La letteratura patologica è il doppio di questa realtà
Napoli patologica (:artisti e munnezza) di Delio Salottolo
Napoli è un pungolo e una assenza: pungolo in quanto possibilità esteriore di esistenza e miscuglio impraticabile, assenza in quanto mancanza di essenza e potenza.
Napoli è proprio quello strano miscuglio in cui si addensano le peggiori (migliori?) conquiste della modernità e le migliori (peggiori?) recrudescenze dell’età dell’oro (piombo, paglia, merda, foraggio).
Il tipo del napoletano: l’artista. Quando guida la macchina, quando gettano alcuni colori da qualche parte, quando fa la spesa, quando attraversano sentieri di parole sulle carte binarie dei computer, quando infila la robba nelle vene, quando strimpella senza troppo crederci nei garage, quando gioca a pallone, quando beve qualcosa per le strade. Lì compare il tipo del napoletano che crede di essere artista perché “cazzo se la vita è una merda”.
Il tipo del napoletano colto e incolto: l’artista del cazzo.
“Il napoletano è nichilista” dicono i più accorti e quelli che hanno studiato e che sanno che le cose vanno male e che le cose vanno male quando la gente è nichilista. Che significa nihil? Niente, proprio niente.
A Napoli non c’è potenza perché possibilità e potenza non esistono più da quando (da sempre?) Napoli nobilissima (come diceva quel vecchio fanfarone di Benedetto Croce) rimane impastata, impigliata, svergognata, cucita con la pelle di cane scuoiato per fare i colli dei cappotti sulle bancarelle, sommersa dalle feci-munnezza-canali-di-scolo che le persone producono e gettano qua e là, sorridente dall’alto della televisione-puttana-della-verità (“mamma mia ci sta la televisione”) quando il solito cantantucolo fa commuovere l’italiano medio del nord-centro-sud, eccitata quando un qualsiasi poetucolo-dalle-parolucole-gentili la decanta nella sua miseria e splendore. “Vedi Napoli quanto è bella” dice il vecchio sorridente osservando il buon pino marittimo e il Vesuvio e calpestando (senza accorgersene) la vecchia tela dei barboni-borboni sommersi dalla munnezza, ultima ed estrema grandezza della nobilissima Napoli, ultimo estremo fetore del napoletano-sopravvissuto.
A Napoli non c’è differenza. L’evento della realtà si consuma tra la frenetica velocità di una modernità ossessiva ed europeizzante di cellulari che cantano la musica (quella sì moderna e post-americana) e l’immobilismo di una vecchia cabala-tombola declamata nei vicoli dei Quartieri dal travestito Esmeralda e la sua corte di vecchie signore ricamate nel nero del lutto di sempre.
A Napoli ci sono molti poeti che strimpellano vecchi versi dotti e colti. E si crede nella poesia a Napoli. A Napoli si crede nel potere purificatore della poesia e così ci sono tanti poeti che scherzano con le parole perché Napoli è una grande città nel bene e nel male. Perché, dopotutto, è colpa dei napoletani e non di Napoli se Napoli e i napoletani sono… Strana de-territorializzazione della colpa.
Napoli città rivoluzionaria, Napoli di Tommaso Aniello, Napoli della repubblica del 1799 dove le idee della rivoluzione francese e l’entusiasmo sono stati rinchiusi a Castel Sant’Elmo, Napoli di Achille Lauro, Napoli di Maradona e del primo scudetto. Napoli città rivoluzionaria. Napoli e la rivoluzione dell’immobilità. “Napoli, città rivoluzionaria?” chiede ridendo il vecchio barbone Corrado quando scorge il sangue incrostato alle narici della madonna illuminata a piazza del Gesù. “Certo, certo” risponde il giullare-camorrista masturbandosi a piazza Plebiscito dinanzi al miglior film porno che abbia mai visto.
“Se tu fai il bravo con me, io faccio il bravo con te ma se mi fai del male…”. La morale del napoletano è re-attiva. E’ la morale di chi si guarda sempre attorno. Miseria delle miserie di sguardi-ossessioni. La morale della munnezza: se mi dai un po’ di benessere io ti restituisco accumuli di munnezza-benessere maleodorante, gustosamente maleodorante.
Napoli non ha essenza, miei cari poeti-artisti. L’essenza è ciò che sta sotto, è ciò che permane, è ciò che al di là di ogni qualità rimane, quello che è perché è quello che è e non è possibile che non sia. “Allora Napoli ha un’essenza!” dice l’uomo colto seduto nel suo appartamento di Posillipo. “Certo, certo” saltellano qua e là i camorristi-giullari. “Certo, certo” fanno eco tutti quelli bruciati pur essendo di limpido amianto, i nostri cari poeti-illustri-nobilissimi.
Camminando per le strade di Napoli e osservando (senza indugiare) sui volti delle persone che la attraversano, che sudano, che con il cappellino di lana e un vecchio scooter mezzo scassato si ripensano ora parcheggiatori ora contrabbandieri, che allattano bambini affacciati al primo piano e parlano con il vecchio portiere, che affidano i propri bambini a piccole micce di minerve di Capodanno e accendini trovati per terra, che sorridono al primo che passa e gli conficcherebbero una lama in gola per poi riderne con gli amici, che mettono in cinta le ragazzine di quattordici anni che la sanno lunga, che non rispettano nulla tranne se stessi e gli altri se stessi che compongono il clan, che occupano, distruggono, disfano e non hanno mai nulla, che combattono per le strade in nome del Napoli calcio, che sparano nella pizzeria margherita, che aiutano le ragazzine dei Quartieri come bravi ginecologi, che osservano Napoli dalle alture del Vomero-Caravaggio-Posillipo, che puzzano di munnezza e diossina salata, che aspettano il cinese al varco Beverello, che osservano il sangue di Gennarino che si scioglie e si lavano nel sangue del loro prossimo-vicino-Dio, che accarezzano il vecchio cane con il singhiozzo, che giocano a carte là fuori, che lottano per la munnezza tossica portata dai soliti giullari che poi trovano lavoro a qualcuno, che bevono vino rosso di Gragnano, che salutano l’amico che parte per il nord, che giocano a pallone per le strade, che gioiscono perdendo, che dicono Napoli padrona
Napoli e munnezza: ovvero si stava meglio quando si stava peggio. Anti-Dialettica dei rifiuti, anti-Rinascimento dei costumi, anti-Estetica dell’arte.
Stefano:
ipotesi di un’accettazione che vincola senza sanzione
di Marco Bernardo
Passa davanti all’enorme specchio che sovrasta buona parte di una della pareti del suo bagno. E’quasi nudo poiché oramai è estate, e nella grande città nella quale è da poco venuto ad abitare davvero fa caldo. Tra un po’ tuttavia andrà al mare. Non in vacanza però, ma a lavorare. Già perché con l’estate la voglia di divertimento e di presunta bella vita aumenta esageratamente, e questo è un fattore determinante per la sua attività professionale.
Nel guardarsi nello specchio prova piacere. Focalizza la sua attenzione sui suoi addominali che contrae e accarezza. Poi fa uno sguardo ammiccante e sensuale allo specchio e, si compiace di sé stesso. Pensa di essere proprio un bel ragazzo, ed il fatto che un bel ragazzo lo è davvero. Come ce ne sono tanti però. Ma quei tanti non sono lui. Già perché lui è Stefano, ed oramai basta il suo nome per evocare un certo mondo fatto di ville, feste, scandali e divertimenti vari. Un mondo che sembra oramai aver trovato in lui il suo rappresentante più fiero, senza che tuttavia ci sia qualche comprensibile (o forse confessabile!) motivazione, che possa spiegare tale estremo interessamento del sistema televisivo nazionale nei suoi confronti. Perché non che Stefano abbia qualche particolare qualità professionale che legittimi la sua posizione, no, eppure sembra essere diventato la star di un sistema che sembra non possa più prescindere da lui. O almeno così pare. E forse è giusto che sia così. O meglio, forse è giusto che il fruitore finale del sistema televisivo creda che sia così, poiché quell’atteggiamento di superbia e spavalderia, che caratterizza ogni sua comparsata nei vari e diversi programmi che lo ospitano, è probabilmente più efficace per la effettiva diffusione del modello. Tra l’altro egli stesso queste cose le sa. Sa del suo essere semplicemente un mezzo per un fine che lo trascende, ed ha consapevolezza della inevitabile fragilità di quel compromesso sul quale si basa il suo successo. Eppure chi se ne frega. I soldi arrivano. Il sesso pure. E quasi tutte le porte gli vengono aperte. L’unica sua preoccupazione e far sì che quei quindici minuti di celebrità teorizzati da qualcuno, durino il più a lungo possibile.
Accende una sigaretta e si siede sul divano. Sul tavolinetto da salotto che gli è davanti c’è una rivista. Stefano la prende e ne guarda con attenzione la copertina. Pensa che quell’immagine sia bella davvero e che il fotografo abbia fatto proprio un bel lavoro. Da quella foto sembra che i suoi occhi siano ancora più grandi ed azzurri di quanto effettivamente non siano.
Sorride. Si sente da primo premio. E’felice.
La rivista parla di un suo nuovo fidanzamento. O meglio, di un suo tradimento che, una volta scoperto, si è successivamente trasformato in una storia d’amore alla luce del sole, con buona pace della ragazza originariamente tradita. Oltre ad un servizio fotografico nel suo nuovo appartamento, la rivista contiene le confessioni di Stefano in merito all’accaduto, confessioni nelle quali egli descrive con dovizia di particolari le modalità con le quali è esplosa la passione tra lui e la sua oramai nuova fidanzata.
Tutto falso.
Non che Stefano non abbia mai avuto una qualche forma di rapporto con questa ragazza, anzi, qualche volta ci ha fatto pure del sesso, ma di certo nulla che possa essere ricondotto ad un concetto di relazione. Figurarsi di passione, di affetto o addirittura di amore.
Il fatto è che la frequentazione con questa sua nuova presunta ragazza (e del resto anche quella con la ragazza precedente) ha scopi meramente pubblicitari. La stessa storia del tradimento non serve ad altro se non a rendere più appetibile quella vicenda, poiché è con lo scandalo che è maggiormente eccitabile la curiosità morbosa delle persone. Ed in un sistema televisivo che oramai prescinde in maniera più o meno totale dalla competenza artistica, dal saper fare, dalla preparazione professionale e che pertanto è potenzialmente riempibile da chiunque, il requisito della popolarità, il fatto cioè di poter essere riconoscibile, è l’unico parametro da prendere in considerazione per far si che possa ritenersi legittimata la presenza di un personaggio all’interno dello schermo televisivo.
Stefano questo lo sa. Gliel’hanno spiegato e lui l’ha capito più che bene. Per questo adesso è raggiante, poiché ha consapevolezza del fatto che quella storia contribuirà in maniera determinante al prolungamento della sua fama e del suo successo.
E’ stato il suo manager ad organizzare il tutto. Sua è stata l’idea del tradimento, così come sua e stata la scelta della ragazza ora nel ruolo di nuova fidanzata. Stefano non ha fatto altro che acconsentire ed eseguire. E del resto non poteva che essere così. Il suo non avere delle competenze professionali che lo possano caratterizzare, (sì, è indubbiamente un bel ragazzo, ma in fondo chi è che non può essere bello al giorno d’oggi?) il fatto cioè di potere essere sostituito in qualsiasi momento, fa si che egli sia in una sorta di soggezione totale nei confronti di quello che più che il suo manager deve essere considerato il suo padrone. E non che tale rapporto di subordinazione sia vissuto da Stefano con sofferenza, anzi, è stato da questi benevolmente accettato poiché ritenuto elemento necessario di quel nuovo modo di fare (televisione) che comunque gli ha permesso di diventare famoso. Ed è in questa accettazione che vincola senza sanzione che deve essere individuata l’utilità di Stefano per la diffusione del nuovo modello del quale egli è oramai rappresentazione diretta.
Attenzione però, il manager è formalmente in buona fede. Il discorso relativo all’eventuale uso strumentale che la televisione fa dei suoi personaggi, a lui non interessa. In fondo egli non fa che il suo lavoro. Crea cioè ciò di cui la televisione necessita. Ed in questo è il numero uno. Evidentemente questa situazione di primato lo rende particolarmente potente in un discorso televisivo nel quale i suoi prodotti sono arrivati ad un livello di diffusione inimmaginabile, eppure egli esercita questo suo potere solo nei confronti dei suoi paggetti-lavoratori. Il concetto di pubblico, di spettatore, di fruitore finale del sistema televisivo nazionale, a lui interessa da un punto di vista esclusivamente lavorativo.
Il rapporto di Stefano con il manager dura da quasi un anno. E’stato quest’ultimo a contattare Stefano dopo che questi ha partecipato ad uno di quei programmi di cosiddetta nuova generazione. Il manager l’aveva osservato bene, ed aveva deciso che la spregiudicatezza e la bellezza di quel ragazzo, dovevano essere utilizzate di più rispetto a quelle poche e sparute ospitate che la partecipazione a quel programma gli avrebbe comunque fisiologicamente assicurato. E poi Stefano aveva un corpo che non poteva non essere suo.
Il manager c’ha visto giusto. Stefano non ha alcun tipo di rigurgito morale che possa dare fastidio alla loro collaborazione. Questo fa di lui un bellissimo e gratificante giocattolo. Ma i giochi, si sa, sono destinati a stancare e ad essere messi da parte prima o poi. Stefano questo lo sa. Eppure chi se ne frega. Ed è in questo atteggiamento di superficialità e non curanza che egli trova la sua forza, perché è con questo modo di pensare che l’interrogarsi sulla correttezza morale del proprio fare perde di senso. Quando poi è oggettivamente vero che, cosi facendo, egli è da considerarsi oramai un vincente. Ha fama e successo. Sesso e soldi. E allora chi se ne frega davvero. L’unica sua preoccupazione e far sì che quei quindici minuti di celebrità teorizzati da qualcuno, durino il più lungo a possibile. E a tal proposito ben venga allora qualsiasi tipo di ordine o compromesso…
Senza titolo di Gianluca Paletta
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Questa voce che ben conosciamo…
Questo dolore, così nocivo e intemperante…
Questa narrazione, così fugace e vacua allo stesso tempo, stretta nella morsa,
Pervasa tra le contratte membra della storia…mi sembra essere cruda e indolente…
Sulla bocca, ancor più del respiro, si spezza….
E questo racconto, questa voce, che in realtà desidererebbe nuocere meno
Alla figura dell’uomo, alle spoglie sepolte di questo tempo…regge sommessa, quest’involucro
Ballerino…nei quali si spande incresciosa l’orma sdrucita del dettaglio, logoro dettame,
fibra sommessa…
Così l’arte, che prima ancora di reggere il suo peso, deve sincerare nell’angoscia
Questa figura iraconda, che neanche la storia, ingorda e sapiente, riesce a contenere…
MENTRE MORIVO n. 3
(monologhi dalla patologia dell’Occidente)
di Delio Salottolo
“perché” chiedendomi con gli occhi imbrattati di vecchia muffa e di giallo-ittero negli interstizi che esplodendo acqua salata sulla mia spalla (Abdoul lamentandosi sempre di più ma io stando ancora vicino a lui) e volendomi rincorrere nelle mie braccia sane e forti e perdendosi nell’ottusità del dolore che scricchiola (io non riuscendo più a guardare il suo tormentato di braccia spezzate) e lui dicendomi “perché” ed io non potendo rispondere all’inesistenza della possibilità di fare ed avere nei giardini il silenzio e non potendo portare Abdoul all’ospedale perché essendo impossibile andare via cercare la strada scappare tra fucili spianati e fili spinati dalla baracca nostra casa e chiesa e lui dicendomi “perché” mentre le braccia sue deformandosi in viola gonfio di sacchi di dolore blu e troncando quasi il respiro quando un soffio di vento sfiorandogli le braccia frantumate gli esplode grida dalla gola scavata nel fondo di un’anima senza anima
- come ti senti? - parlando io stupidamente e tenendolo in vita (ma perché?)
- perché - rispondendomi lui frantumandosi gli occhi di vecchio vetro finto e tremando per il freddo feroce
- cos’hai? - dicendo quel vecchio bambino (figlio di Jasmine) scorticandosi le gambe con un vecchio coltellino senza lama e incidendo sul muro qualcosa
“perché” chiedendomi ancora mentre pensando a quando mio padre sparando al vecchio mulo quando portando il carico di vecchi tappeti e crollando a terra per la fatica e spezzandosi entrambe le caviglie (che non posso dimenticare lo scricchiolio sordo e lieve e il verso del mulo deformando il mio ricordo) morire finalmente con la testa uguale a sempre ma non avendo più vita in quel vecchio corpo e portare grosse casse piene di rosso e non potendo mangiare altro da settimane e poi cadendo e scivolando e schiacciando i pomodori il vecchio Abdoul e poi ancora ricordando le grida di Abdoul (con gli occhi lividi di marcio) e bastoni di legno arrugginito e di ferro infradiciato (avendoli assaggiati anch’io dal sapore amaro) che ora non è più bambino avendo vent’anni e non avendo più corpo incancrenito tra vecchie casse e sordi rumori ciechi
- come ti senti? - parlando io stupidamente e tenendolo in vita (ma perché?)
- perché - rispondendomi lui frantumandosi gli occhi di vecchio vetro finto e tremando per il freddo feroce
- bleah - cacciando la lingua violacea quel vecchio bambino (figlio di Jasmine) saltando in piedi e cercare ancora qualcosa da fare non potendo sorridere ma sottomettendo la lingua al dolore non sapendo dove è Jasmine?
riflessioni sulla morte di un demente
di Bartolomeo Pacifico
L’eternità del silenzio
nel ventre di un immobile buio
E morte continua
perpetua
sì livida vive
su pelle d’avorio
e grigio amianto
Che lungo respiro
a spirale in breve accerchia
Verso una china d’acciaio al sangue sporco
si estingue l’anima idiota dell’odio
E contro foglie
gonfie d’autunno
il rumore tiepido
spettacolo
delle cose
Frammenti di Napoli (lexodan) di Fabio Rocco Oliva
Essendo che mamma ha chiuso porta per poi tornare tra un po’ con buste di spesa e speriamo una sorpresa per me che ora solo in casa e lei avendo dato me qualche di quelle caramelle perché sentire papà che dicendo che io devo prendere perché non essendo mai fermo e mi muovo sempre perché agitato e poi tutti i bimbi in classe pure si muovere come me ma niente pillole loro e la maestra non dire nulla solo mi guardare e toccare la testa che poi adesso invece non mi muovo più e allora posso non prendere più le caramelle piccole e bianche ma ora piangere sempre io perché stanco e pancia che fa male e mamma compra da mangiare e io mangiando poco che la pancia fa rumori di animaletti – e quando torna poi mi dare anche le caramelle brutte e piccolo cucchiaio di miele che a me non piacere nemmeno quello che papà invece dicendo che buono lo ingoia pure lui per fare sorridere me ma io non sorriso più perchè non lo so avendo solo di piangere e buttarmi sotto le coperte che Gianpaolo mi prende sempre in giro perché avendo detto lui delle caramelle e che non mi piace di fare più nulla e lui ride e si fidanzato con Marina che prima lei teneva la manina mia dentro la manina sua – poi mi alzandomi dalla cucina perché televisione mi scocciando e preso altre caramelle perché non mi muovo più e sono tutto lento con gli animaletti nello stomaco che succhiano tutto quello che gira dentro e in la cameretta sul letto avendo ancora il grembiulino e il brutto fiocco giallo che mi fa piangere pure quello e allora che mangiando il fiocco per mamma che non c’è ancora e non mi portare la sorpresa così perché papà ride sempre – avendo il fiocco a pallina in bocca che così respirare poco e poi affannando che mi vedo fare bianco e rosso e viola con piedi che sono all’aria è come volare come i cartoni animati essendo che la sedia caduta a terra e il grembiule legato bene per bene stretto come i nodi che insegnando la maestra e stretto stretto al collo mio il grembiulino blu che volando ancora più rosso e viola per la cameretta e tutta la cameretta avendo il soffitto veloce una scia bianca e grigia che il pavimento se lo mangia e la finestra mettendosi sulla porta che vedo me fuori da me la pelle viola
Avendo gli occhi che uscire fuori e le mani gonfie e poi nulla più – papà apre la porta della mia cameretta e mi guarda morire
Teorema d’AMEBA
di Carmine Masiello
Vieni a farti vita in me-
Puoi xché sai mentire. V
Sciogli ogni complicazione-
Puoi giacché sai apparire. S
Il mio calore farà il resto- I
Presto sublimerà l’ultima pelle- P
Finirò il lavoro, vedrai- F
Si.
Ogni DOPO/GIORNO d’oro è polvere
d’alloro
Mi chiedo come possa crederci ANCORA,
Sperare nell’ultima Bustine
E ghignare nel refrigerio di:
PULISCI-LAVAGNA/TEMPO-GESSO
Il tempo lo prendi o lo perdi, di lampo, e
Se balli lo vediamo tutti noi, io le zanzare
stì dannati tafani.
Volteggiamo insieme sulla sabbia della
mente
E’ il nostro eterno carillon
E qui
E’
INSUFFICIENZA IN EMPATIA DI
GHIACCIO
“UN ALTRO x favore;;”
“Gin eeeeeeeee….”
“33 Dì trentatré”
“Eh?”
“Cointreau”
“Eh?”
“OK.BEVI tro ppo”
“Lo so . E’ tua quella creatura?”
“Sì;” :!
“Ora capisci, ora capisci?”
Si
Vieni a farti vita in me-Puoi, sai bucare V
Sciogli ogni complicazione-Puoi sai
divorare. S
Il mio dolore finirà il lavoro- I
Per tentacoli evocativi sento issare….su P
(La solita solfa)
NOSTRA SIGNORA DI LOURDES
Fabio Rocco Oliva
La casa di cura Nostra Signora di Lourdes si trova sulla collina di San Sebastiano al Vesuvio, in una zona disabitata. Di fronte c’è la stazione della circumvesuviana e tra loro c’è un enorme spiazzale di cemento. L’istituto è un vecchio palazzo dell’ottocento a due piani. Al secondo piano c’è un lungo corridoio a forma di ferro di cavallo. Al centro c’è la stanza degli infermieri e intorno le stanze dei malati. Il primo piano è uguale al secondo.
Al piano terra c’è una mensa abbastanza grande che affaccia su un giardino di cemento. Qua e là ci sono alcune panche in legno. Vicino alla mensa c’è l’ufficio accettazione, poi una stanza per gli infermieri accanto alla quale ci sono delle scale che portano ad uno scantinato. Qui giù c’è un cancello spalancato che è arrugginito e verde, un catenaccio gettato a terra e subito dopo c’è una stanza rettangolare con due lunghe panche sulle quali ci sono montagne di vestiti: camicie da notte, canottiere, vestaglie, un orsacchiotto giallo che stringe tra le mani un girasole. È di Emma.
Appoggiata sulla porta alla fine della stanza dei vestiti c’è Lina, una giovane assistente sociale in camice verde che controlla annoiata il lato destro e poi il sinistro del corridoio, poi ancora il destro e poi di nuovo il sinistro. Il destro e il sinistro. Fuma. Anche in questo corridoio ci sono delle panche appoggiate al muro, panche di legno duro e umido. Non c’è alcun condotto d’aria e il caldo s’incrosta sulla pelle. Vaffancul, a fess e soreta Emma si toglie da una coscia un pezzetto di legno che le si era conficcato sotto la pelle appesa e le pungeva. Poi lo osserva e lo mastica. Vaffancul, a fess e mammeta. Lina tiene d’occhio Emma. Emma punta gli occhi su Lina. Lina ha le braccia incrociate sotto il seno. Emma si volta da un’altra parte. Tutto tranquillo. Lina riprende a controllare il corridoio. Destra, sinistra. E poi ancora destra e poi ancora sinistra. A fess e mammeta. Da una stanza in fondo a destra esce Paolo, un uomo grosso in divisa verde e con lui altri due piccoli assistenti: si dirigono verso le panche. Il primo del gruppo è Augusto che fissa il muro di fronte e si dondola meccanicamente a destra e a sinistra - le mani sulla pancia. A fess e soreta, vaffancul. I pollici a rincorrersi. I due assistenti aprono i catenacci ai piedi del quarto ritardato del gruppo di Augusto dividendoli da quelli del secondo gruppo. Li portano poi in una stanza. Dall’altro lato in fondo a sinistra c’è un altro uomo in camice verde con altri due assistenti. Aprono le catene dai piedi di un altro paziente: una donna ritardata si copre la vagina. A fess e mammeta. Poi sono condotti anche loro in una stanza:
Lina facendo segno ad Emma di stare zitta accendendosi un’altra sigaretta che Emma avendo le mani sulle gambe e le braccia incurvate e poi le mani tra inguine e occhi che cerchiando di nero le pupille attorno a carne bianca magra sul vuoto del muro di fronte cominciare ad agitarsi e spasmi di nervi che dopo qualche minuto Paolo tornare nel corridoio con gli assistenti che lo seguono e vanno svelti verso il gruppo di Emma vaffancul, a fess e mammeta, vaffancul prendendo il gruppo di Emma: il primo che essendo un uomo che si pisciandosi addosso continuamente e allora Paolo prenderlo per le ascelle e poi per il collo tappandosi le narici spingere avanti - è così! - e tutti gli altri legati a lui si muovere con lui a fess e mammeta, vaffancul Emma scivolando e si rialzando piangere e spingendo che dall’altro lato ancora Paolo per prendere da dietro lei che mentre la stringe per i fianchi strizzare i capezzoli nudi ed emma piangendo forte e rosso quando scomparire dal corridoio da entrando in un’altra stanza - intanto quelli che prima erano nella stanza di Emma sono usciti e vanno a sedersi nuovamente sulle panche – Lina, aiutando le suore che legare per bene e strette nuovamente le ritardate e gli schizofrenici sulle panche - Con qualche mutilato problemi e perplessità: poi risolvere tutto con del filo di ferro A fess e mammeta, vaffuncul Paolo immobilizzando per bene emma e la tiene da dietro e stringere la pancia sulla schiena di lei che colonna vertebrale d’ossa storte e sul sedere floscio di lei che è rossa in viso in su e giù - dove Orsacchiotto? - che ha girasole, mentre l’uomo continuare a pisciare dietro il vecchio che incatenato con loro ridendo – occhio sinistro di vetro – prendendo poi la prima del gruppo, una grassa senza un seno e mettono in vasca che non si agita nulla e passiva totalmente a fess e mammeta così poi ci lanciare dentro il vecchio mentre paolo stringere ancora la furia di emma dicendo che agli altri come muoversi oltre emma avendo una forza straordinaria di nervi tesi e muscoli tirati poi rialzando il vecchio lavato dalla vasca gelida e mettendoci l’uomo pisciandosi mentre la grassa è ancora là dentro immobile e passiva – a fess e soreta, vaffancul per uno degli assistenti prendendo le asciugamani che avevano usato quelli dell’altro gruppo di prima per pulirsi date al vecchio e all’uomo pisciandosi addosso come fontana che nel frattempo tirato su dalla vasca: paolo prende di peso emma la solleva e lei sbatte le braccia: Per il Corridoio: bloccare tutti gli altri che essendoci chi si dondola facendo girare i pollici così, in questo modo qua! - a fess e mammeta, vaffancul, a fess e soreta - chiudendo gli occhi per non sentire mauro mangia le unghie di pietro toccandosi tra le cosce vicino ad una mutilata che nessuno sa il nome perché puzzando sempre anche dopo lavata - a fess e mammeta, vaffancul, a fess e soreta - Paolo s’avvicina alla vasca - pietre nere e appuntite calpestando il pavimento di mattonelle gialle consumate da macchie gialle e chiazze di piscio: la grassa ancora nella vasca di fronte ad emma che si dimenare e che facendo pressione contro la vasca con i piedi e spingere in senso opposto contro paolo a fess e soreta, vaffancul che le scortica ancora la vagina come strapparla via e gli altri torcendole capezzoli mentre gli altri due sono fermi in un angolo spaventati e l’uomo non può fare a meno di pisciare per la paura e per le urla di emma e il vecchio eccitato con l’occhio sano alla grassa immobile perché voleva stare di più là dentro con lei nell’acqua nera della vasca che poi emma spingendo più forte sputare addosso agli assistenti e prendere a morsi le mani di paolo che la lascia via Nel Corridoio: passando da una testa all’altra degli altri sulle panche fino al lato opposto a fess e mammeta vaffancul terrorizzati dove lina finito di legare gli altri e stando accovacciata tra le cosce di uno di loro che è rosso in viso agitato mettendosi le mani sulla testa di lina spingere con tutta la furia di schizofrenia su e giù - su e giù a lina strizzandogli capezzoli a fess e mammeta vaffacnul accanto ai piedi a terra la sigaretta ancora accesa e la porta al lato opposto che si spalanca: emma uscire fuori nudata con peli pubici fino al ventre a fess e mammeta vaffacnul scivolando per l’acqua a terra correre per il corridoio lina alzando la testa passando un po’ di braccio lungo le labbra e di là è proprio emma che entrare nella stanza di vestiti di prima, dei due assistenti cercando di alzare paolo per le braccia e pesante e testa e schiena convulsamente in movimento dopo la testa sulla pietra della vasca: l’uomo piscia dietro il vecchio con l’occhio alla grassa senza un seno nella vasca immobile.
Emma sale per le scale - si graffia contro il cancello verde e arrugginito - corre forsennata superando nudata la mensa col calore dentro gli organi - correre verso l’uscita che è a due passi - poi contro la porta al maniglione antipanico che è bloccato perché hanno messo una sacchetta di materiale flessibile e indistruttibile che raccoglie liquidi di quelli che non si alzano dal letto per bloccare il maniglione antipanico
A fess e soreta stracciando via la sacca spalancata la porta che c’è il gelo di inverno fuori e nient’altro ma la testa del Vesuvio poi scendere le scale d’uscita dalla casa di corsa piedi nudi dall’ingresso sul cemento e poi il cancello aperto e poi oltre il cancello:
Emma
Si gratta la testa con frenesia – correre via non è divertente:
circumvesuviana - spiazzale immenso di cemento ricoperto di spazzatura - bruciando gas nero - tra spazzatura e fiamme un gruppo di bambini su piccoli motorini correndo tra la spazzatura - bruciando e ridere e urlare e vedere emma nudata sul cancello - le vanno incontro suonando i clacson dei motorini
- na fammena ca fessa a fore, guagliù, ahh ahh ahh
- ma chi è?
- comme fa schif!
- a fess e mammeta vaffancul
Poi una mano da dietro sulla bocca di emma altre sulle caviglie, paolo le blocca il ventre da dietro - le suore davanti per non farla vedere ai bambini la prendono di peso e la sollevano.
Nudata: a fess e soreta, vaffancul muovendosi convulsamente il cielo e la nuvola nera di spazzatura bruciata: poi, lina per prima con degli schiaffi al volto e poi subito dopo a fess e soreta, vaffancul che un calcio al ventre e così tutti gli altri a turno fino a che non chiudono la porta della casa di cura. E ancora. Ancora.
Dopo alcune ore. Emma è riuscita a tranquillizzarsi. Ora è distesa sul letto della sua camera e sul cuscino è appoggiato Orsacchiotto con il girasole tra le mani. Una suora è appena uscita dalla sua camera e va verso un cestino per buttare la siringa che ha iniettato nelle vene di Emma: torvast. Emma si muove appena, come se avesse un macigno addosso. Ha la pancia che pressa il letto contorta come se stesse scalando una montagna per andare oltre: respirando lentamente dalle narici, un filo di voce: a fess e mammeta vaffancul.
Voci di falene nel bagno offerto alla nebbia
di Bartolomeo Pacifico
E attraverso una doccia
distratta
superflue voci di falene attraversano l’aria
Inquieti fruscii saltano
dal baule bavoso dove bazzicano scarafaggi reali
Sarà questa nebbia di cappelli demoliti
o il riscuotere legnoso del violoncello in soffitta
Sarà quel fumo di pipa che attraversa i chiavistelli
in ammassi di cannella
E fotografie lontane finite sui marciapiedi
nelle credenze spalancate
Sarà il boato del mio cuore a svegliarti
dai teatri di pietra
stanotte
Le lanterne sulla strada si cedono al giallo
e i netturbini pagani nascondono l’anima dietro la luna
Perché (ancora) falce e martello?
Soltanto poche parole. Perché bastano poche parole.
La notte del 6 dicembre vi è stato un rogo all’interno delle acciaierie ThyssenKrupp e questa è la cronaca. Più di mille persone ogni anno muoiono per incidenti sul lavoro e queste sono statistiche. La “questione operaia” è oramai al di fuori di qualsiasi dibattito politico, sociale, economico e questa è la realtà effettuale.
Si dice che le condizioni sono differenti. E intanto sono scomparsi (forse finalmente!, osservando bene le politiche e i progetti e i compromessi) i partiti che portavano ancora quella immagine fuori dal tempo: la falce e il martello. Ora si prediligono i colori, non più i simboli scoloriti di un tempo.
Tutto coincide: ThyssenKrupp e assenza di falce e martello.
Il revisionismo storico degli ultimi anni ha portato a questo: non esiste più una “questione operaia”. E i padroni (sì! vogliamo usare proprio questo termine da vecchia propaganda “comunista”, questo termine che profuma (o emana fetore, dipende) di vecchio comunismo in bianco e nero) e i padroni la fanno sempre franca.
Ed è per questo che c’è una urgenza in questa domanda: perché (ancora) falce e martello?
In queste pagine vogliamo fare un piccolo omaggio a Ferruccio Brugnaro poeta-operaio, protagonista delle lunghe lotte del movimento operaio di questi ultimi decenni, che non ha mai smesso di porsi la questione.
Quest’uomo è qualcosa che potrebbe assomigliare a un maestro e ci ha lasciato queste poesie che è necessario leggere.
Venite, venite tutti
Il semicerchio delle fabbriche e della notte
s’alza con in mano
grandi torce;
fiamme come lunghi coltelli
s’incrociano, stridono
attorno al dolore, la solitudine;
cala in terra
un sangue martoriato
un amore completamente respinto.
Venite, accostatevi alle fabbriche
di giorno, di notte.
La morte è tutta sopra il cuore,
le sue unghie ridono feroci nella carne.
Venite, venite tutti vicino le fabbriche
di mattina, di sera.
Nella speranza, nella forza
si radunano
Angoscia e incertezza.
Il vuoto vuole dominare
impossessarsi della vita;
l’anima
nell’ingranaggio del nulla
vi chiama a gran voce tutti, tutti.
Tra gli acciai che colpiscono
Le mie ossa sono un groviglio
di cunicoli.
Le mie mani una raccolta di ferite.
Non ho espressione nelle tempie
che delle cose abbandonate.
Ma sfido chiunque nella notte
a fischiettare tra gli acciai
che colpiscono a fondo,
che straziano senza riguardi.
Mi misuro con chiunque se volete
a reggersi nell’anima
nella vita
tra queste lingue che mangiano lente
tra queste bocche
che ridono larghe delle lacrime.
Mi guardo con stupore
Mi guardo in un vetro ora
di sfuggita.
Ho il volto macchiato di olio
i capelli bianchi di polimero.
Non mi sento più
nè braccia né gambe
dalla fatica.
Mi guardo con stupore,
non so riconoscermi.
Ascolto con incertezza e desiderio
il respiro.
La mia vita, tutta la mia vita ormai
è solo silenzio, grande silenzio.
Il caffè dell’alba
Quasi nel buio
siamo in alcuni
attorno a un distributore automatico
di caffè.
La notte fuori sbatte lamiere,
sta cerchiando di pece
gli occhi
di una nuova alba.
Con i bicchieri di plastica
in mano
ci guardiamo l’un l’altro
attraverso un vetro spesso d’angoscia.
Il nostro cuore ora
È un rogo alto che tocca il cielo.
Crolli, voci d’invocazione
Martelli ho sentito battere dentro
per tutto il giorno.
Voci d’invocazione, crolli
ho avvertito
da ogni angolo della carne.
Sono stato tutt’oggi ritto
all’opposizione
attaccato con i denti a glaciali strutture
cicli di lavorazione,
attaccato con i denti al bruciore
degli occhi
investiti dalla polvere.
Mi sono insinuato con tenacia
in ore schiaccianti,
ho disfatto tutta la mia fede
l’ho ricomposta
tra l’anidride solforosa
tra manovre, ordini;
ho tracciato d’anima
la tremenda luce del nitrile.
penso che farò qualche settimana in fabbrica!
di Delio Salottolo
“muoviti a salire con quella bestia che dobbiamo fare presto” quel vecchio don Gennaro che lavora per il signor Esposito che digrigna i denti peggio dei cani quando sono appesi e sputano e sbavano e tossiscono e con quella faccia perennemente rossa come se il sangue volesse finalmente esplodere e gli occhi verde-muffa ed io tirando il vecchio Chang che come tutte le bestie che porto quassù gli do sempre un nome (e li chiamo tutti Chang questi cani perché è il nome del padre di mia moglie) perché anche loro hanno un’anima e tirandomi ancora per il guinzaglio e con gli occhi sbarrati come sapendo che la morte sta per venire
“ah, finalmente, questo è bello, mi piace” dice il vecchio don Gennaro con l’alito impregnato di tabacco nero tra i denti e stringendosi le braccia dal freddo e schiacciandosi il vecchio berretto di lana in testa
“va bene?” dico arrampicandomi sul sentiero che porta a quella baracca di legno senza finestre
“va bene? va bene? “ scherza don Gennaro “va bene! va bene! con quella pelliccia…” ripete e continua “è bello grosso, con questo facciamo un bel po’ di cose, vero Yuscè?
“sì, signor Gennaro, quanti euro per questo?” dico mentre legando il cane ad un piccolo albero mi muovo verso la baracca per prendere il solito bastone incrostato di rosso scuro e puzza di cane morto e il sacco di tela verde
“oh…mamma mia! voi cinesi pensate solo ai soldi!” dice don Gennaro tentando di accarezzare la bestia, “sempre e solo ai soldi e mamma mia!” e il cane sgrana denti e occhi limpidi “venti euro” tossisce “venti euro, vanno bene, no?
“no” dico mentre mi avvicino accarezzando la mazza (sempre la stessa, ogni volta per i miei Chang), “no no, signore, trenta euro sennò io vado via con il mio Chang, mi dispiace”
“va bene, va bene” dice don Gennaro sorridendo e guardando di sbieco il vecchio Chang che ho preso proprio quaggiù e che mi ha sorriso perché io portando a lui ogni giorno la pappa per un mese e lui seguendomi ormai sempre anche senza guinzaglio perché io avrei potuto portare a casa il buon vecchio Chang per il mio bambino che vuole una cane e io pensando che non porto il lavoro a casa e che il vecchio Chang però mi fa proprio pena con quel muso immerso in una bella pelliccia grigio-scuro per i cappotti dei negozi e che le persone se li strofinano sul viso e sulle mani (prima di comprare) per vedere la morbidezza
e allora togliendogli lentamente il guinzaglio giallo e sporco che questo Chang fidandosi di me sembra quasi scodinzolare guardandomi dal basso e quasi sorridendomi alito caldo sulla mano mentre infilandogli il vecchio cappio di corda sempre più consumata e meno gialla e dicendo a don Gennaro di tirare su con forza ma lentamente facendo perno sul grosso ramo dietro la baracca che da qui si vede il mare e le isole e a volte c’è un tramonto chiazzato di rosso e arancione quando lentamente i miei poveri Chang vengono lentamente (bisogna fare piano!) impiccati dal signor Gennaro che poi io mentre ansimano e digrignano e sputano saliva e tossiscono strozzando fuori grigi guaiti e stretti e forse bestemmiando io bam! con il bastone violentemente prima sulla testa sperando che svengono subito (e ci vuole forza con parecchi di loro) e poi bam! e stavolta la testa è sfondata e alcuni strilli acuti di bambini massacrati (penso a volte al piccolo Zhang) perché abbiamo dimenticato (io e don Gennaro) di mettere il cappuccio che “se qualcuno ci sente” dice don Gennaro girando gli occhi vitrei da un’altra parte e cercando qualche persona che forse ci ha sentito e che se ci ha sentito allora non c’è più niente da fare (“è finita! è finita!”) e poi ancora bam! bam! bam! essendo finalmente morto il vecchio Chang e buttando a terra il bastone e avendo gli stivali incrostati fango-sangue e don Gennaro lasciando la corda diradata e cadendo il vecchio Chang a peso morto e prendendo io un vecchio sacco (il solito!) lo infilo dentro e dandomi lui in cambio trenta euro che conto sempre prima di infilarli nella tasca del pantalone
“e con questo abbiamo almeno una decina di colli per cappotti” dice allontanandosi sorridendo e portandolo immediatamente a scuoiare il vecchio signor Gennaro scendendo quel piccolo tratto di (quasi) campagna verso la fine di via Zanfagna dove c’è quello schifo di fabbrica nel seminterrato che loro pure gli animali morti cuciono e forse pure le mamme se tenessero la pelliccia
“e mo’, Yuscè, te ne puoi pure andare!
La signora Titina abita al secondo piano di una casa arrampicata sul dorso curvo di via Zanfagna, in uno strano posto dove la collina degrada affabilmente verso Fuorigrotta, dove guardando verso l’alto si vedono i bei palazzi e i parchi luminosi di via Caravaggio e verso il basso e ad est si vedono strane campagne non coltivate e vecchie case diroccate buttate lì quasi a caso, dove la gente del posto dice che si sentono delle strane grida come di bambini scuoiati, dove oltre questa leggera collina calante è possibile vedere Nisida e un tratto del lungomare di Bagnoli e proprio lì il sole (quando vuole) tramonta, bagnando di rosso-sangue l’orizzonte.
Yu-sheng abita in una specie di vecchio garage, in un sottosuolo adibito ad appartamento da chissacchì dove l’unica finestra, in alto nella vecchia cucina incrostata come di pulci, è all’altezza della strada e non può essere aperta perché gli scarichi dei motorini che senza guinzaglio scorrazzano di qua e di là entrano direttamente nei polmoni, dove la puzza di fogna è condimento quotidiano ai pasti serali consumati chiacchierando.
La signora Titina è una vecchia di settanta (e più) anni che ha lavorato tutta la vita e ora è riuscita ad avere una doppia pensione con la quale riesce a vivere più che dignitosamente. Molto curva, la signora Titina è piegata come un vecchio ramo fradicio sotto la pioggia indecente e incessante degli anni, e contorcendosi faticosamente (ma sorridendo sempre) riesce ad uscire tutte le mattine di casa per fare magari un po’ di spesa o per portare il cibo ai cani di via Consalvo, unici fedeli amici di una vecchiaia senza pudore.
Yu-sheng ha quasi quarant’anni e una famiglia: una moglie che lavora in una fabbrica di borse sempre dalle parti di Fuorigrotta e due figli: la prima studia e va al liceo (è nata in Italia e parla ormai abbastanza bene sia l’italiano che il cinese) e il secondo è ancora un bambino e frequenta la scuola elementare.
La signora Titina, che piange ormai da molti anni la morte del marito (consumato alla gola come un cappio da una malattia feroce e improvvisa), scende tutte le mattine (e anche questa) dalla sua abitazione con due grossi contenitori ricolmi di riso e carne per i cani randagi della zona. Quando esce dal portone, Titina lancia uno sguardo alla fabbrica di vestiti (prevalentemente cappotti) che si trova in un seminterrato proprio accanto al palazzo dove vive e si avvia verso la discesa fatta di un acciottolato sporco e sdrucciolevole che nelle giornate di pioggia (seppur lieve come questa mattina) diventa assai pericoloso.
Yu-sheng non ha un lavoro fisso ma fa vari tipi di lavoretti, quello che gli capita, senza pensarci troppo e con poca dedizione, tanto per portare qualche soldo a casa. Ha lavorato anche lui in fabbrica e ogni tanto ci torna quando non trova nient’altro di meglio ma se riesce a fare qualcosa all’aria aperta lo preferisce. “Sono un campagnolo mica un cinese di Shangai” pensa spesso quando osserva le strade di Napoli e lo smog e l’immondizia e la tosse che lo prende tra le macchine.
Il vento è freddo e la signora Titina si stringe all’interno della sua giacca (acquistata direttamente alla fabbrica sotto casa e le hanno fatto anche un ottimo prezzo!) che ha un bellissimo e morbido collo di pelliccia (finto, pensa la signora Titina, per i quattro soldi che ha pagato, però è caldo!)
Yu-sheng è appena tornato a casa e si sta lavando perché non sopporta quella puzza addosso di morte e cani e allora preferisce lavarsi immediatamente anche se poi consuma tutto il vecchio scaldabagno e la moglie e i figli (quando torneranno) non potranno lavarsi o lo faranno con l’acqua fredda perché i soldi sono pochi e bisogna mandarli in Cina quei pochi che avanzano, in Cina dal vecchio Chang che non riesce più a campare dignitosamente, ma randagio vaga per il vecchio villaggio ormai quasi abbandonato.
La signora Titina con il suo passo lento arriva all’angolo di via Consalvo là dove lascia solitamente la pappa per i cani e anche oggi le corrono tutti intorno: c’è Lola che sembra un dobermann ma ha le orecchie lunghe ed è dolcissima, Thomas che sembra una specie di spinone dal colore grigio-topo e che abbaia sempre troppo, Frida che è un volpino gigante grasso grasso che riesce a stento a muoversi, Cleo che sarebbe un pastore tedesco se non avesse le zampe tanto corte e manca soltanto Caterina una bellissima cagnona a pelo lungo che non dà confidenza a nessuno.
Yu-sheng è sotto la doccia e nel bagno camminano piccoli scarafaggetti neri e veloci che escono chissà da dove e pensa che vicino al loro bunker sotto terra deve esserci proprio lo scolo della fogna o qualcosa del genere, perché c’è puzza e scarafaggi, perché c’è sempre puzza e quei maledetti scarafaggi neri e veloci che non sono come quelli di campagna, perché si vede che sono cittadini anche loro, viscidi, approfittatori e pronti sempre a rovinare la giornata, proprio come don Gennaro. Dopo essersi asciugato, apre la vecchia credenza dove c’è la vecchia scatola della madre dove raccolgono tutti i soldi e dove ripone i trenta euro guadagnati all’alba.
La signora Titina si guarda intorno, non vede Caterina, la cerca giusto un po’ con lo sguardo e lascia il cibo per terra e ritorna arrampicandosi su quella maledetta salita verso casa perchè deve mettere a cucinare, perché fra poco cominciano le soap opera, perché fra poco è il momento di sedersi di fronte alla stufa calda mentre l’acqua della pasta non riesce ancora a bollire.
Yu-sheng è seduto al tavolo e fissa la vecchia parete ingiallita e ammuffita e pensa di scendere e fare qualcosa, deve fare qualcosa anzi, perché non può perder tutto quel tempo senza fare niente, aspettando che i ragazzi tornano da scuola e la moglie torna da lavoro con quei venti euro al giorno che guadagna, lavorando tanto e una volta è tornata che si era fatta male cucendosi in un macchinario un dito e non l’avevano neanche accompagnata all’ospedale.
La signora Titina è chiusa in casa e non apre a nessuno la porta perché con quello che si sente in giro è meglio non aprire a nessuno; la televisione si trova in una angolo ma il volume è basso perché deve essere semplicemente una presenza, non deve accavallarsi alla presenza reale della stufa bollente e dei pensieri che rumorosamente e teatralmente le riempiono le giornate, commuovendola il più delle volte ma facendole nascere un sorriso ogni tanto.
Yu-sheng parla e scherza con i figli che sono tornati a casa e il piccolo Zhang dice che un compagno di classe, Giovanni, ha avuto come regalo un cagnolino per Natale, bellissimo, dolcissimo, che gioca sempre con tutti e lo vuole pure lui e lo vuole lo vuole lo vuole ma poi interviene la sorella (che ha la stessa voce della mamma, pensa Yu-sheng) che gli dice che loro non possono tenerlo perché la casa è piccola e non c’è posto per un cane e allora il piccolo Zhang dice che lo farebbe dormire con lui nel lettino e la sorella ride e il padre sorride pensando che non porterebbe mai il lavoro a casa.
La signora Titina pensa che il giorno dopo (se è bel tempo e si sente bene) deve andare a cercare Caterina perché è una brava cagna, proprio una brava cagna e il marito dal bordo della vecchia foto in divisa militare, non bello ma pur sempre il suo destino, le sorride un sì, mia piccola Titina, sì.
Yu-sheng si alza prestissimo anche stamattina, infila senza fare troppo rumore gli stivali incrostati di sangue e fango, guarda il piccolo Zhang abbracciato al cane di peluche ed esce lentamente di casa. Dovrà di nuovo arrampicarsi su via Zanfagna per raggiungere la campagna dove con poco lavoro riesce a guadagnare qualcosa.
mentre infilandogli il vecchio cappio di corda sempre più consumata e meno gialla e dicendo a don Gennaro di tirare su con forza ma lentamente che poi io mentre ansimano e digrignano e sputano saliva e tossiscono strozzando fuori grigi guaiti e stretti e forse bestemmiando io bam! con il bastone violentemente prima sulla testa sperando che svengono subito e poi bam! e stavolta la testa è sfondata e alcuni strilli acuti di bambini massacrati perché dimentichiamo sempre (io e don Gennaro) di mettere il cappuccio che “se qualcuno ci sente” dice don Gennaro (ogni volta dice lo stesso) e poi ancora bam! bam! bam! essendo finalmente morto il vecchio Chang e buttando a terra il bastone e don Gennaro lasciando la corda diradata e cadendo il vecchio Chang a peso morto e questa volta avendomi dato solo venti euro e lui ora se lo mette da solo nel sacco il Chang con quelle sue manacce grosse e sporche
“e con questo facciamo a stento sei sette colli per cappotti” dice allontanandosi ingrugnito e portandolo immediatamente a scuoiare il vecchio signor Gennaro
“e mo’, Yuscè, te ne puoi pure andare!
e pulendomi le mani sporche sul pantalone (basta! appena torno a casa lo butto) penso che farò qualche settimana in fabbrica
sì sì proprio qualche settimana in fabbrica
Sermoni di uccelli o altre creature terrestri
di Bartolomeo Pacifico
Sermoni lucenti si ripetono nella polvere arrotolata.
Senza ossa il tempo violaceo rafferma nella pelle vergine di sangue crudo.
E se oltre il cielo non c’è pioggia, un liquido cosmico abbraccia ladro,
la volta celeste.
Intanto lacrime dal fondo dei pozzi, rossi al tramonto, si levano in alto
leggere come ali spezzate di libellula.
Il volto sepolto.
Il volto sepolto dall’esistenza del soffio, vento, cenere nuda e rossastra,
pallida su laghi brevi di ghiaccio.
Treni di tulipani passano mortali
senza più colore e mannaie sospese al chiodo drago d’argento.
Creature monche genuflesse dallo strumento avido della natura.
Policroma carne in moltitudine.
La sedia ha una corda di lino appesa al corpo, forse tagliata dal fuoco.
Certezza affumicata!
Scene su cui scinde un animale il suo cervello.
Occhi di morte carichi di paura.
Spenti nel vuoto del massacro.
Il cerchio dispare.
Il cerchio nell’aria svanisce.
Crepa nella vasta atmosfera.
Portando bianco dinanzi e ombra.
E silenzi forzati.
Crocifissi dal desiderio.
Verso l’acqua sgrammaticata dal subbuglio. Verso pendio di forma umana.
Ogni giorno inghiotte musica, nascosto da favole leggere in scatto accelerato.
Dei nascosti tra i rami sparpagliano virus tracotanti.
Donne sui monti nudi bevono pomeriggi e spari.
Svaniscono gli insetti madre sotto la terra fertile di radice.
Se la formica avesse parole tonde.
Se il sole sputasse note sul tuo corpo arreso.
Tu che possiedi il vento nell’anima morbida.
E cadi sul filo di una vecchia esca.
Sul tramonto urbano c’è avvolta una miseria, che io vedo.
Come un giornale scaduto/ coperta inchiostro di vagabondo nudo.
Una luna storta s’infuoca per qualche ora
mentre gli uomini spalancano vino
con mani gialle
e cuore avvoltolato
Oltre le scale
un piccione sta in equilibrio
sull’arcangelo del tempio
Le chiese chiuse
In portoni di legno
Le statue di vetro cristalline
La pioggia
E gli uccelli attendono il mattino con unghie consumate
Alcune (impossibili) annotazioni su
“Aisthànomai, il dramma della coscienza”
(ultimo disco di Romina Daniele[1])
di Delio Salottolo
Ovviamente (in questo momento) non ne voglio capire di musica o per meglio dire: ovviamente non mi interessa in questo momento cercare spiegazioni teoretico-tecniche o avanzare ipotesi fonologiche (o fono(il)logiche?). Che senso avrebbe afferrare l’inafferrabile (ora) quando si ascolta?
L’inafferrabile sonorità fastidiosa e cupa che risiede nell’assenza totale di referenti, che si staglia su sfondo nero pece tutto-includente e che affonda nell’esasperazione di un calcolo infinitesimale di porzioni di caos lanciate (senza pudore) verso l’ascoltatore, tra stridii (non d’inferno, questione assente!) e profondità baritonali che non fanno sprofondare ma trascinano in una invaginazione orizzontale sul dorso dell’essere-nulla, e poi ancora le parole che non dicono e la voce che non è vociare di parole, ma insieme voci e parole non sono in primo momento significato ma (im)puri significanti, ricerca ossessiva della modalità dell’Uno attraverso l’esplosione della voce che, perduta ogni razionalità, vaga riflettendosi in frammenti dell’(in)appartenenza.
Oltre l’uno (del senso, dell’appartenenza, della voce, della parola, della sensazione) e il molteplice (dei sensi escludentesi, delle (in)appartenenze, dei suoni (ir)responsabili, delle (in)significazioni, delle corde emozionali scuoiate dai suoni) verrebbe da dire!: ma non deve interessarci: bisogna affrontare il pericolo vero.
Queste sono (soltanto) le prime riflessioni durante il primo ascolto (testimonianza seria e diretta di scrittura (semi)automatica e di inconsci produttivi guidati dai suoni). La scrittura-prigione ci lasci liberi almeno in opportuni momenti.
Più lucidamente, ora.
Ed allora, perché fare musica così? O, forse, la referenza sarebbe: perché ascoltare musica così?
Cerchiamo di razionalizzare e di violentare (seppur il meno possibile) questo progetto: qui è il grado zero della sperimentazione, ovvero sperimentazione che sperimenta su se stessa e non su un sostrato da (e)sperimentare, è musica fuori dal tempo ma che non appartiene ad alcuna aurea a-temporale, è teatro della voce che recita la sua (im)possibile esasperazione vocalica, è oltreumana visione, è immediatamente intuizione di spazi inesistenti; La voce è utilizzata come uno strumento senza scopi il cui delirio rischia di far esplodere nell’incubo le più belle giornate o di rendere esaltante anche il minimo stridio frettoloso della nostra (mancanza di) anima; non è musica semplicemente, è una prova o una sfida lanciata all’ascoltatore la cui posta in gioco è l’annichilimento temporaneo di ogni normale costituzione di sé.
E’ musica-esperienza trans-individuale, è pura funzione, è la reale distruzione della possibilità di ogni individualismo universalizzante. E’ semplice rete di interconnessioni e così:
“Voce-materia-natura. Elettronica-suono-tecnica. Lingua-testo-concetto. Ecco i tre territori in cui si dirama e attua Aisthànomai (termine emblematico di percezione e conoscenza) e sui quali si pone e nei quali si situa la mia legge di non condizione conoscitiva: come fine espressivo deliberatamente perseguito.” (dal booklet)
In summa. Perché perdersi questa allucinata porzione di caos?
COME ORDINARLO:
Distributore: Cd Baby – Vendita on-line: www.cdbaby.com;
è possibile ascoltare l’anteprima di alcune delle tracce promo audio on-line anche su www.myspace.com/rominadaniele.
MENTRE MORIVO n. 4
(monologhi dalla patologia dell’Occidente)
di Delio Salottolo
stando così le cose mia cara zia per me potete rimanere ancora così a sguazzare nel vostro piscio
la zia dice: - guarda a ‘sta cessa, ‘sta puttana e’ merda
e io dico: - zia, state pure così
e la signora dicendomi che la mamma è malata e dice parolacce e non potendo più alzarsi io devo mettere pannolone perché la signora si fa addosso e dicendomi parolacce sempre e io non sopportando più di essere trattata così ma poi la zia è così carina quando mi guarda e poi piangendo e raccontandomi alcune cose di quando il marito e poi non capisco più niente perché
io dico: - zia, andiamo in bagno?
e lei dice:- ma guarda a ‘sta zoccola, ti vuoi chiavare a mio marito, eh?, che puttana, cessa di merda, sta stronza!
io dico: - zia, andiamo in bagno?
e lei dice: - non ce la faccio più! Voglio morire
e io alzandola dal letto incassata e sprofondata nel giallo-sporco delle vecchie coperte, spezzandomi quasi i polsi che sono gonfi e viola di quando mio padre mi spezzava la faccia essendo ubriaco quando la vecchia fabbrica chiudendo gli disse “bevi pure” e poi pensando alla mia vecchia nonna in Ucraina che cucinando sempre quelle frittelle con la marmellata e avendo un lungo terreno dove coltivava qualcosa e io stando con lei da bambina quando il mondo non esisteva ancora perché in Ucraina il mondo non esisteva ancora stando io in Ucraina da bambina felice quando il mondo, l’Italia, la vecchia zia non esisteva in Ucraina e sorridendo dello sguardo della zia che sta seduta sul cesso e forse provando vergogna di me (essendo io una estranea per lei tutti i giorni) e piangendo mi dice che il marito è morto di tumore alla gola (gridando e gorgogliando il marito e lei raccontando) e io non capendo bene e lei piangendo lacrime sottili stando seduta sul cesso e poi sorridendomi e
io dico: - finito?
lei dice: - sì
alzandola dal cesso con i polsi che mi fanno male e poi alzandole lentamente i mutandoni e lei facendo pipì che quasi mi va in faccia e io urlando e spingendola la faccio cadere sulla tazza e lei ridendo ma poi piangendo e poi ridendo e poi piangendo ma la zia è molto malata mi dice la signora sua figlia che poi scendendo la mattina presto mentre il marito sempre in viaggio per affari e tornando a casa la sera essendo sempre stanca e non volendo mai sentire niente della mamma che mi piscia in faccia
e lei dice: - puttana, cessa, stronza, ti vuoi chiavare mio marito?
pulendo il bagno con lo straccio che puzza sempre di piscio e muffa (lo devo lavare!) e poi uscendo e sbattendo la porta (i vecchi sono come bambini) lascio la signora seduta sul cesso tanto manco è capace di muoversi da sola e andando in cucina chiamo il signor Alfredo e dicendomi che mi ama mentre la zia urlando parolacce dal bagno e che chissà se divorzia mi sposa ma io non credendoci ma avendone bisogno e gli sorrido e gli dico che vorrei che stesse con me mentre la zia urlando parolacce dal bagno e io dicendogli che domenica mi deve portare a pranzo fuori mentre la zia urlando parolacce dal bagno e poi salutandolo con un bacio e correndo dalla zia sentendo strani rumori
lei (stando a terra su un lato capovolta imbracata dalle sue stesse mutande e sorridendo perché l’imbarazzo) dice: - ma voi chi siete?
io dico: - sono Roxana e ora andiamo a vedere la televisione
FRAMMENTI DI NAPOLI
(terapia intensiva)
di Fabio Rocco Oliva
“Ed è questo che siamo? Così finisce il nostro corpo, Enzo?” – e intanto la notte vomitando nero oltre la finestra d’ospedale tra inutili punti gialli nel cielo essendo meno gialli e meno fluorescenti del giallo lungo il corpo di Enzo e Roberto, malati epatici, essendo nel carcere di una stanza da sei mesi insieme ormai e le mogli di loro in sala d’attesa bere caffé e piangere entrate poi in camera di loro con sorriso e rosso di rabbia in volto e vergogna e umiliazione - Enzo muto aggrovigliare l’estremità delle dita sotto le lenzuola perché il ricordo di Santa nudata sul letto s’aggroviglia al corpo giovane di lui su tetti di casa aggiustare antenne e poi il piccolo che aprire le braccia a lui che aprire la porta di casa aprendosi la porta della sala intensiva mura gialle da bordi grigi camici di infermieri arancione fluorescente allarme codice rosso e bandane da circo mettendo nella sua bocca di Roberto tubi nelle vene liquidi che nella sua testa rimbombare il giallo della bile e il blocco del rene che funziona l’altro è chiuso bloccato e macchinari a tirarlo su mentre tutto girare e ruotare in senso opposto alla logica e “Ed è questo che siamo? Così finisce il nostro corpo, Enzo?” Roberto applicato sul volto maschera come antigas contro infiltrazioni di gas mortali in camere a gas e poi sonno dolce e catastrofico non potendo muovere dita e testa e tutto chiuso in un attimo cancellando tutta la vita – ultima visione: mano di un anestesista: Sala operatoria: Ore. Ore. Ore. Hanno poi installato il fegato, bene.
La mano della moglie di Roberto è perla nella conchiglia della mano di Santa. Lacrimose per ore.
Poi tossire e sputando e spuntando alito di vita che gli occhi di Roberto si sbarrano al soffitto grigio della terapia intensiva alle tre di notte – tornare alla vita - quando fuori nessuno è in vita e tranne lì dove morte e vita circolano insieme e confondere l’uno e l’altro e abbassare gli occhi di fronte alla morte e a sé scoprire e ricordare: Enzo - nell’orribile posizione di un morto e tra letti e flebo e computer Enzo lasciando cadere la barba sul petto nudo e giallo e le tempie fredde e consumate tra le dite delicate e doppio pianto di Santa voltandosi ad Enzo degli occhi di lei nel corpo martoriato del marito e poi di là a Roberto intontito ancora e allucinazioni ancora:
“Ed è questo che siamo? Così finisce il nostro corpo, Enzo?” Roberto piangendo in camera loro così negli ultimi giorni chiedeva tormentando Enzo – ora sopravvissuto: sensi di colpa attanagliando la nuova vita: il fegato che ha salvato lui poteva salvare il suo compagno di cella.
Ma ora: essendo solo tempie di Enzo raccolte sotto marmo in un pezzo di cimitero.
5;45 di Gianluca Paletta
I passi che mi portano a casa
Anestetizzano i rumori della notte,
La mia mano regge il sepolcrale fumo di una sigaretta,
I passi sono rudi al rientro
Le dita scendono sui fianchi
La pancia ricorda l’ora di una mela marcia.
C è un ultimo pensiero che prende a calci
La mattina del giorno dopo,
L’ultima visione di cordoglio
Il deflusso dell’uomo da un letto
Il significato di uscire e andarsene,
L’amore e la mancata eleganza dei corpi…
L’uomo è oramai arrivato a destinazione
E braccato sul davanti di una porta
Inizia il rituale
Delle chiavi e sulla porta,
Inizia il rituale della testa
Sfoderata dalla parete del cranio
Accende la luce
Apre la sua bocca e spegne
L’immagine
L’uomo è tornato
Ha un ultimo pensiero
Guardarsi con distanza
….e prepararsi alla bocca
Di una lingua umana
MARGINALIA
a cura di Luca Caserta
Quando compro un libro, mi preoccupo sempre che abbia margini spaziosi: e non tanto per amore della cosa in sé, che pure fa piacere, quanto per l’opportunità che il margine ampio mi offre di scrivervi a matita le idee che mi vengono (…) Quando quello che voglio annotare è troppo lungo perché rientri nella stretta striscia di un margine, l’affido a un foglietto che inserisco fra le pagine, e mi preoccupo di fissarcelo con una goccia impercettibile di colla.
Edgar Allan Poe
L’impercettibile trucco della lente
(parte seconda)
A volte le parole sembrano confuse, come il disordine che regna nelle scatole dove i bambini ripongono i giochi. Resterebbero, i giochi, dispersi ovunque, anche negli angoli più scuri delle stanze per non disperdere il metodo alla fantasia.
Ma ai bambini i capelli bisogna pettinarli. Bisogna riporre i giochi e sedersi a tavola per cena. A tavola si sta composti.
La barca del reverendo Dogson si dirige verso le terre d’America, non per scelta, segue la corrente, attraversa i grandi fiumi, scandaglia l’acqua limacciosa.
Lungo il corso, salta fuori American Gothic, un dipinto di Grant Wood, pittore dell’Iowa.
Un opera del 1931, lo stesso anno del Sanctuary di William Faulkner.
Al Museum Of Modern Art di New York sbarcavano, chiuse nelle casse, dopo l’ozio del viaggio d’oltremare, le opere di Toulose Lautrec e Oddillon Redon per essere esposte.
Perché questo ritratto che sa di Fiandre, di perfezione molecolare, come se Wood avesse messo gli abiti puritani ai personaggi dei ritratti veneziani di Giovanni Bellini, ci invita al giudizio con l’aria da paesaggio nordico illuminato dai filtri delle campagne americane, dove il vento smuove il grano ad onde?
Wood, si sa, prende in mano i bulini in un laboratorio di oreficeria col monocolo ad osservare i punti minimi delle saldature, le minuzie dei granelli d’oro che si librano confusi nell’ambiente reso aspro dagli acidi. Poi bagna le mani a Monaco nel 1928 per progettare una grande vetrata e lì conosce le opere degli antichi maestri del quattrocento fiammingo facendo i compiti sulle pale di Rogier van der Weyden, Van Eych e delll’amato Maestro di Brugge, Hans Memlinc.
Giorgio de Chirico durante il suo viaggio americano appunterà i ricordi stilando dell’America la sua Metafisica.
Da Omnibus, datato 8 ottobre 1938, leggo, ripensando agli sposi di Wood:
essi vivono di qua e di là del tempo, ma non nel tempo, ed il loro sguardo ed il loro sorriso e tutta l’espressione del loro volto di fantasmi è l’espressione di coloro che sanno che non c’è nulla da sapere.
Saranno persi tra le immagini riflesse di uno specchio. Forse vivono la loro storia al contrario. Ma diamo alla luna il tempo di far salire la marea. Riprendo tra le mani un piccolo libro edito da Archinto nel 1989, riporta un titolo che conserva poche speranze, già nel suo voler salvare in lista qualcosa. Cento libri per due secoli di letteratura. Titolo in bianco su un triste e piatto campo di colore azzurro cupo. Giorgio Manganelli e Cesare Garboli gli autori. In verità il volumetto della casa editrice milanese riprende gli articoli originariamente usciti nel 1960 sulle pagine de “Il Giorno”. Manganelli salva Faulkner, Luce d’Agosto, pubblicato nel 1932 e scrive:
Sanguinoso e simbolico, colmo di disperazione e di amore frustrato, questo libro esemplifica la qualità più sconcertante e più autentica di Faulkner: la sua assurdità. La bontà è inefficiente e chiama la violenza, e pertanto si coinvolge al male; o è viziosa e falsa, ed esige violenza: in ogni caso, la conclusione è in qualche gesto brutale e necessario. Nella gran calura estiva, abbagliata o letale, la vita fermenta di oscuro amore per la propria composizione ed espiazione.
Il dipinto di Grant Wood trascolora in queste parole come le chiavi segrete riposte nei barattoli di latta utili ad aprire le casse dei nonni in soffitta.
American Gothic è anche il titolo del terzo album di un cantautore americano nato il 20 febbraio del
Ma è il retro copertina che chiude il cerchio.
Marito e moglie a rifare Grant Wood con gli abiti da lavoro. Non c’è tensione, solo calma da cielo sbiancato e alberi con le foglie cadute, c’è il livore dei freddi invernali, la casa bianca rialzata sui tronchi. Come le case sui fiumi con le tende colorate alle finestre. Questo songwriter che amò Kurt Weill e Aaron Copland, laureato in tecnica e storia del cinema, studioso di letteratura inglese e filosofia germanica, cantò l’America coi toni dei funamboli e dei clown. Il suo primo disco ha una copertina ancora più straniante. Egli è lontano, in un angolo di una stanza e osserva la sua immagine riflessa in uno specchio rotto, o forse un vetro. Lo specchio è in primo piano, quindi noi guardiamo lo specchio e Ackles è alle nostre spalle, ma noi non siamo riflessi. In questi contrari rimandi da cieli capovolti si compie la sua arte. Siamo il suo doppio, una versione di quello che Mark Twain chiamava il mio doppio, il mio socio in dualità, il secondo personaggio del tutto indipendente che vive in me. Del resto Samuel Langhorne Clemens, scrittore del Mississippi, nato ad Hannibal, cittadina di fiume, nel Missouri, prima fermata a Nord del Battello per St. Louis, scelse lo pseudonimo Mark Twain - twain vuol dire due - e fu ossessionato da questo suo secondo io.
[1] Romina Daniele è un prodotto partenopeo, sviluppatosi fino all’età della ragione in queste terre. Poi Milano. E’ vincitrice del Premio Internazionale Demetrio Stratos per la ricerca vocale e la sperimentazione musicale nel 2005 e una cara amica. Il dramma della coscienza è il suo ed il nostro. O l’assenza di entrambi.
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