EDITORIALE
Che cosa è una rivista di letteratura oggi? Qual’è il motivo della sua realizzazione? Quali le sue reali prospettive di vita?
Rispondere alla prima domanda risulta difficile. È difficile perché bisogna tener presente la diversità di intendere la rivista tra coloro che sono rivestiti della corona d’alloro di poeti napoletani affermati e le giovani leve.
Negli ultimi trenta anni Napoli ha creato un buon numero di riviste, molte delle quali sono morte nel giro di pochi anni: cadute sotto il peso di sperimentalismi fini a se stessi, cadute sotto i colpi del soldo, perché l’orecchio dei lettori cercava qualcosa di più affine ad una letteratura di tranquillità. Altre riviste sono sopravvissute e vivono ancora oggi. Ma qual è il loro stato attuale? Di nicchia, di narcisismo, di pedanteria. Accademiche o neoavanguardiste. Una parte della vecchia guardia di poeti oggi è chiusa nelle loro riviste, elevate a cantuccio di gloria del tanto lavoro passato. Dove sono le cicatrici che l’impegno letterario lascia sulla pelle del poeta, cicatrici che stimolerebbero i nuovi arrivati? Il poeta affermato è in decubito in un comodo letto di conferenze autocelebrative dove riposarsi dopo la battaglia. In uno studio isolato sommerso di libri. Nascosto tra inestricabili intersezioni di vicoli. Pochi sono quelli che si espongono silenziosamente per stimolare e forse sono quelli che hanno rifiutato di far parte di questa cerchia di eletti - un perverso cerchio, un cane che si morde la coda.
E tra i giovani, cosa è una rivista oggi? Essenzialmente uno strumento per portarsi a letto qualcuno, un vuoto atto estetico, uno sfogare i propri complessi adolescenziali o ricercare le famose e mitologiche sinergie, essere famosi nell’ambiente della città. Uno sterile non sentirsi soli. Questo conferma il fatto che, oggi, riviste giovanili di proposizione di letteratura muoiono nello spazio di poco tempo o restano totalmente sconosciute o non riescono a creare la minima dialettica, artistica e sociologica, con il territorio in cui agiscono.
Avendo esaminato queste due categorie di scrittori e il loro rapporto con la produzione letteraria relativa all’ambito delle riviste, non ci resta che constatare tristemente un fallimento. Del prodotto e dell’intento.
Per la prima domanda, però, bisogna ancora dire qualcosa, ma bisogna cambiarne la formulazione. È inevitabile chiedersi: che cosa, dunque, deve essere oggi una rivista che proponga letteratura? La rivista, oggi come sempre, a Napoli come ovunque, deve essere uno strumento fondamentale per comprendere il nostro spazio, per squarciare - per quanto possibile ai noi, uomini del terzo millennio - quel velo di catrame che ci separa dalle nostre profondità nelle quali è lasciato in agonia il nostro aspetto più veritiero e sofferente. In quelle profondità a ben vedere non c’è ragione di sorriso, di autocompiacimento, di soddisfazione, di gloria. Non c’è ragione di cantare una vittoria, non c’è ragione di sentirsi perfettamente in armonia con il nostro spazio e tempo. Allora la rivista non è più un contenitore a vuoto di parole ma una pala che scava nel marcio. Questo non potrà portare felicità e appagamento ma solo sofferenza e angoscia. Lo scopo principale non sarà quello di portarsi a letto qualcuno o di bearsi del lavoro fatto in tanti anni. La rivista è un documentario storico e in quanto tale ha l’obbligo, prima di tutto verso se stessa, di filmare e far conoscere ciò che non si vuole vedere e che costituisce il fallimento del nostro tempo, delle speranze di tanti anni fa ormai crollate. Le macerie che abbiamo intorno scarnificano la nostra pelle e deve restare l’intellettuale che non nasconde le ferite ma che le studia, le documenta e le imprime sulla carta della rivista tramite le possibili modalità dell’espressione letteraria. Non possiamo ritornare ai romanzi Liala, ai vecchi modelli piccolo-borghesi cantati ed elogiati nella loro epica quotidianità, non possiamo più rincorrere le bottiglie vuote della beat-generation o di bukowski. Questi miti, come tanti altri, sono esplosi e i loro frammenti camminano per le strade, il loro fallimento è nelle nostre macerie, nel crollo quotidiano che ci circonda, nella ricerca ostinata di quei miti e nella loro impossibilità di essere ancora attuali. Allora bisogna adesso studiare i resti di quei corpi mitologici esplosi, filmando come un documentario. Questo deve essere una rivista. E poi porsi incessantemente domande crudeli affrontando risposte proteiche.
Il nostro è un tempo meschino, siamo saturi, noi in quanto italiani e in quanto napoletani, del nostro passato che ci consegna la coscienza infelice, inevitabilmente infelice. Il ricordo del nostro antico passato di eroi e la consapevolezza del nostro presente di uomini senza mani e senza bocca, brucia. Deve bruciare. Il nostro tempo, i nostri tentativi, non devono essere quelli di un’autobiografia di una città rinunciataria, che ha il culto della rinuncia, che rifugge l’eresia e la bestemmia, che sogna la facilità e si fida dell’entusiasmo. E per non sentire il fallimento sorridiamo e ci arrocchiamo nei nostri castelletti di gioie da quattro soldi: le riviste narcisistiche, i libri commerciali, le presentazioni di libri vuoti intessuti di una base teorica che abbraccia migliaia di anni di pensiero, o il folle isolamento, arrendersi alla inutilità e irrealizzabilità del tutto, all’impossibilità d’essere a causa del confronto con i miti del nostro secolo, miti del giovane e bello che si consuma rapidamente, dell’intellettuale talmente geniale da non poter realizzare nulla e poi vantarsene, del vecchio saggio che stanco si ritira. Una rivista di letteratura va oltre questi giochi, oltre questi scherzi di infantile follia.
Quali le sue reali prospettive di vita? Sono in un’altra domanda. Qual’è quell’al di là di ogni motivo che possa uccidere una rivista, quel punteruolo che la renda frenetica e immune ai dardi del crollo? La volontà. La volontà di scavare incessantemente sotto la pioggia nel fango, sotto il calore per anni e non trovarvi nulla, la volontà contro le piume di un divano
Fino a quando persisterà questo squallido e inaccettabile dormiveglia, fino a quando chi non vuole far avanzare la cultura sincera e perciò fastidiosa metterà sempre lo sgambetto, la volontà di scoprire e toccare le macerie picchierà impercettibilmente la coscienza di ognuno di noi. Non sapere oggi, con tutte le possibilità che abbiamo, non giustifica nulla. L’esperienza letteraria è ancora determinante per noi, perché pone il dubbio e non accetta stabilità.
Nota per Brugnaro
Aggiungi le tue cose
garamond
L’ASSENZA
di Delio Salottolo
Ho trascorso i miei giorni ad attraversare tiepide tentazioni grigie
traversie diagonali
incrostazioni di pensiero
Ho camminato per miriadi di strade diramate incontrando balordi
direttori di banca
donne che allattano
e poi ancora
occhiali da Vista
terrore dell’Altro
maglie rosa quando la moda diceva Rosa
assenze Disperse
zeri in Giacca e Cravatta
vetri Opachi in cui non riuscivo a incontrarmi
la possibilità di credere che
il Tempo esiste
la volontà di pensare che
l’Amore è l’ultima prova
Ma sono aggrinzito da grumi di sostanze di pensiero
da ritratti politici castrati
da costrizioni di senso
l’orario di Lavoro su me stesso
lo zingarello con l’Organetto
lo Sguardo di chi crede
fame nell’Occhio affamato
tipologie di Lacrime non mie
distruzioni Familiari
il mio Membro tra le dita
morti tramortiti dal Caso
la lentezza della Lotta
e
l’Assenza di qualsiasi realtà determinante
Una domenica mattina di dodici anni fa incontrai una suora
arrancava sulla salita con buste da spesa ricolme
Mi chiese perché l’aiutassi pur non andando in chiesa ed essendo Ateo
non risposi e rimasi nel mio adolescente silenzio
L’INFANTICIDIO
di Fabio Rocco Oliva
Si pulisce i piedi sullo zerbino verde a strisce Elena, tornata a casa con due buste di plastica pesanti dopo aver comprato le bistecche (grasso, pelato, il macellaio che, sorridente nonostante un dente mancante e il bancone pieno di carne fresca e odore del vitello scannato e la cassa e la cenere della sigaretta, ha il negozio all’angolo di fronte all’edicola) e il pollo per il marito e la figlia Giulia - tre anni da poco, un dente caduto seduta con le gambe incrociate a fianco al padre (Antimo - guida calma, curve precise - mette la freccia quando sorpassa, inserisce una cassetta nell’autoradio, sorride alla figlia che è divertita dalla musica che ascolta il padre) in macchina fiat punto bianca, Giulia e occhi oltre il finestrino verso il lago d’Averno: stringere gli occhi (nero) contro il sole accecante (bianco) e la figura del padre diventa sfocata un gioco che le piace, stringere gli occhi forte e tutto è un’ombra e il padre parla, racconta storie sul lago e lei gioca con la cintura di sicurezza - e per il figlio Andrea - la campanella suona, schizza dal banco esce da scuola e ha percorso in gran fretta il cortile, salutato qualche amichetto tolto il grembiule e per tornare presto a casa tagliare per il pezzetto di terra della vecchia Agnese contadina pelle stropicciata senza calze e cane pastore e correre tra le piante e si ferma per fare pipì tra la vegetazione fitta e alta e poi afferra una spiga e la mette nello zaino, un fruscio non lontano da lui e correre via impaurito, frenetico, lo hanno scoperto, la spiga e faceva la pipì, deve fuggire, non devono scoprire chi è, la mamma si dispiacerebbe – e sistemare poi tutto sul tavolo della cucina per preparare le padelle, mettere l’olio a soffriggere, apparecchiare accendendo la televisione e alcune massaie con lunghi coltelli preparano da mangiare all’una del pomeriggio ed Elena è in bagno – stretto e lungo e bianco e mattonelle azzurre (il marito tornerà più tardi) - si prepara con calma perchè riflette su quello che ormai dovrà necessariamente accadere (i particolari), tutto dovrà essere perfettamente naturale - il marito non condividerà la sua scelta (ma questo non importa) - Elena e suo marito l’ottuso - donna madre bella sensuale ancora magra consumata occhi infossati naso aquilino una lunga gonna marrone e una camicetta gialla e i capelli legati le scendono sul collo e le mani screpolate. Andrea suona il campanello e aspetta la mamma. La madre è a casa, aspettare e guardare quelle massaie cucinare, tagliare pezzi di pollo, arrosto, uova, galline e olio bollente, schizzi, Agnese lega il cane al guinzaglio, telefonate, quiz. La sua tavola è apparecchiata e il piatto di pasta è pronto, fuma. Andrea lancia da qualche parte lo zaino e si lava subito le mani, la mamma si arrabbierebbe. Mangiano - Antimo parcheggia la macchina e prende la figlia in braccio. Dopo mangiato la madre lo accompagna in camera e lo sistema a letto: Il piccolo crolla ha sonno vuole riposare. Il vento. Leggero solletica il viso di Giulia che ride e gioca con la faccia del padre (Andrea: la mamma non sa della terra di Agnese? e insieme si addormentano) coprendogli gli occhi - Andrea parla poco perchè è molto timido e perennemente imbarazzato; ha otto anni, magro, basso, esile – tappandogli la bocca, le orecchie. Il padre le fa delle smorfie - Elena seduta sul letto la testa del figlio al petto, lei è culla - e canticchia. Indica il lago, racconta ancora qualche storiella. Elena… Le insegna a ballare il valzer e poi le sussurra delle canzoncine all’orecchio. Elena in cucina: accende la televisione, lava i piatti, conserva il cibo per il marito nel forno. Nel lavello ci sono i coltelli sporchi, li prende. Il corridoio. La camera del figlio. Il bagno. L’acqua calda. E Antimo dopo molte giravolte è stanco e siede sull’erba - stende l’asciugamano a quadri rossi e neri, un picnic, fame - sistema Giulia sull’asciugamani, sigaretta. Restano in silenzio. Elena apre la porta della camera di Andrea. Controlla se dorme. Antimo controlla il lago poi la figlia poi le montagne poi la strada poi ancora la figlia. Sì, dorme. In bagno con i coltelli in mano, li lava lì per l’acqua calda e i coltelli lavati per bene - Giulia gioca con un lembo dell’asciugamano. Si agita, si lancia tra le braccia del padre. La piccola vuole fare un bagno. Perché no? Asciugare i coltelli, li appoggia sul davanzale e si chiude a chiave. La giornata è calda. Antimo prende il cellulare e controlla l’orario. Dopo cinque minuti tira lo scarico ed esce. Le due del pomeriggio. C’è tempo. Entra nella camera di Andrea. Allora va in macchina e dopo un poco trova il costume della piccola, glie lo infila e ne indossa uno anche lui. Prende la figlioletta per mano e insieme si incamminano verso il lago. Lasciano l’asciugamani incustodito sull’erba. Andrea dorme? Sì, dorme. Allora accende la televisione. Antimo i piedi nel lago. La figlia attaccata al collo e ride. Elena alza il volume della televisione - progressivamente - svegliare il figlio. Il padre raccoglie un po’ d’acqua nella mano e le bagna il volto. Nel frattempo l’acqua arriva all’addome. Le massaie sono ancora lì che cucinano e bevono dei vini pregiati e ridono. Prende la figlia sulla schiena, Andrea apre gli occhi assonnato e la madre tra lui e la televisione. Si tranquillizza lei si aggrappa come può con tutte le forze e nuotano insieme (stava facendo un brutto sogno, Andrea). Le tende le braccia sorridendo – il crollo della timidezza - anche la madre gli tende le braccia.
I coltelli delle massaie. Antimo nuota serenamente con la figlia - nonostante il vento il lago è calmo - Urla e agita acqua. Il padre tiene la bambina sulla schiena che si diverte molto. Il lago d’Averno - un deserto che nessuno preferisce al mare. Una ventina di bracciate, sorrisi e Antimo stacca Giulia dalla schiena e se la porta davanti. Sorridono. Le bagna la testa. Una volta, due volte, tre volte. Elena ha le braccia spalancate - i fari della macchina sono accesi - e nelle mani ha due enormi coltelli puliti per bene e affilati lanciandosi sul piccolo, la televisione ad alto volume, prendendo ad infilzargli la tenera carne e il piccolo non si oppone, le massaie mangiano quello che hanno preparato - le tre del pomeriggio – Antimo, bagnando la figlia immergendo direttamente la testolina nell’acqua - la bimba beve molto - la tiene ferma per il collo e per la schiena e sulla statale un furgone trasporta cavalli e i capelli di Giulia sono appesantiti dall’acqua e galleggiano in superficie e la madre staccando le mani e i piedi del figlio con due secche coltellate e poi passandogli lo stomaco e una massaia che si rimbocca le maniche per impastare la farina e il padre prendendo per la schiena la bambina e la spinge giù nell’acqua del lago, giù nel lago, sprofonda, si aiuta con i piedi, delle camelie vengono annaffiate e la madre ha bisogno d’acqua per le mani sporche dopo aver raccolto i pezzettini del figlioletto e li ha ammucchiati meticolosamente in un angolo, busta di plastica, Giulia affonda e il padre allenta la presa, la figlia giù nell’acqua e il padre rivestendosi - le braccine divaricate - si mette in macchina e guida e la madre avendo fatto un sacchettino del figlio non ha intenzione di pulire le mura della camera.
La madre aspetta al tavolo della cucina il marito. Sono le quattro. La televisione è accesa. Le massaie riprendono a cucinare. La moglie non sa se il marito approverà. Il marito in macchina teme una reazione eccessiva da parte della moglie. Pensa che quando tornerà a casa litigherà con la moglie e poi ammazzerà il figlio. Giunge al palazzo di casa. Sale le scale. La moglie stringe ancora i coltelli in mano. Il marito apre la porta e stringe saldamente tra le mani il cric della macchina. La moglie è in piedi con due enormi coltelli. Il marito ha un enorme cric tra le mani. Nessuno dei due è agitato. Il marito fissa la moglie. La moglie fissa ringhia muta contro il marito.
Si siedono intorno al tavolo della cucina.
Bevono del caffé. Fumano sigarette. La televisione in sottofondo. Passano le ore. Poi è sera. Le otto. Mangiano. Buttano la spazzatura. Passeggiano per il viale. Si respira bene. L’aria è fresca. Non si fa fatica a respirare. Poi tornano a casa. Un goccio di anice. Si lavano. Indossano il pigiama. Vanno a letto. Spengono la luce.
L’HO SENTITO IMPLORARE CON DUREZZA
di Ferruccio Brugnaro
L’aria oggi puzza di uova marce
È infetta
Di tetraetile idrocarburi
Catrami.
Ho raccolto dal cemento ora
Un minuscolo uccello
Rosso grigio
Tutto tremante
Ha gli occhi quasi chiusi
E il becco pieno
Di schiuma verdastra.
Forse ha mangiato
Qualche granulo
Di zolfo
Forse qualche altro veleno
Terribile.
L’ho sentito implorare
La mia mano
Con durezza
L’ho sentito piangere
A dirotto
Come un cielo
Scrosciante
Senza nessuna
Risposta.
Dentro la mia mano
Ho toccato con ampiezza
In silenzio
Tutto il dolore
Lo spegnersi
E il vivere
Straziante
Inesorabile.
Mi è stata gettata nel profondo
Oggi
Una domanda d’amore
Di luce
Che non può essere
Nascosta da nessuna
Parte.
Ho scoperto oggi
Tutto un mondo
Di uomini fiori animali
Ho scoperto resistenze
Tenacie
Gioie segrete e pazze
Che non si sottometteranno
Neanche se bombe e missili
Cadranno
Da tutte le latitudini
Più fitte
Della neve
Nelle notti
D’inverno
Non era ancora l'alba quando la follia entrò nella mia stanza
di EmmeBernardo
Non era ancora l’alba quando la follia entrò nella mia stanza.
Inesorabile e potente si presentò a me nella spira del serpente.
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Caldo ed aria greve nell’angoscia della stanza.
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Ed il mio cuore batteva e sudava ansia
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E mille e mille stridii di ragno esplosero agghiaccianti nella sua voce
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Sorrise di un sorriso triste e desolato ed i suoi denti erano lame di ghiaccio, sottili.
E fu allora che il moscone nero della consapevolezza venne e depositò
le sue uova tra le pieghe del cervello
si schiusero.
E come scheggia e lama
nella mia testa si conficcò
il tremendo frutto di quella covata.
Pensieri paranoici e demenza.
Non era ancora l’alba quando sono diventato pazzo.
UNO DEI SOLITI OMICIDI
di Delio Salottolo
quanto tempo resterò qui?
sono rinchiuso, immobile e stantio, guardo i minuscoli pezzettini di me che si rincorrono per la stanza, come minuscoli scarafaggi attraversare gli interstizi delle dita dei miei piedi, una formica trascina a fatica una mollica di pane, queste sono le mie care nature superstiti dall’ultima disinfestazione, non devono lasciarmi solo ancora una volta, voglio i miei amici,
osservo alcune ragazze appoggiate alla parete destra, la bionda con le tette grosse mi scruta e mi apre la patta dei pantaloni, la rossa con lentiggini mostra il culo candido, hanno occhio, sanno riconoscere un vero uomo,
sono stanco e sono annoiato, non ne posso più di rimbalzare contro queste morbide pareti, non ho più storie da raccontarmi e non ho la possibilità di fare nulla in questo posto,
questo posto, questa stanza ha quattro pareti bianche, un soffitto bianco e un pavimento bianco, spesso di notte non spengono la luce, non so perchè, comunque anche quando i padroni credono di lasciarmi al buio sperando che gli incubi mi opprimano, questa stanza è accesa e luminosa e ciò mi costringe ad osservarmi, non ho specchio, senza la mia immagine riflessa, soffermo lo sguardo tra i cocci appuntiti e tra i sorrisi delle mie schegge,
puzzo, puzzo di giornale vecchio, di carta riciclata inzuppata, del Mattino intriso d’acqua che non leggo da più di un anno, puzzo e non mi lavo né mi lavano, il mio corpo sarà riciclato?
- L’ho fatto, sì, l’ho fatto e non mi interessa nulla di quello che pensi tu, che pensate tutti, sai quanto me ne fotto io…-, perché? Non voglio assentarmi ancora, voglio rincorrere le antiche gioie, pieno, vitale, qualche sorriso sulle volto delle ragazze che mi guardano, - Noi viviamo assieme e tu devi fare qualcosa. Non sei mai stato il tipo che prima lascia il lavoro, poi si ubriaca e infine picchia la moglie. Tu sei delicato. Hai sempre fatto quello che non capivi. Mi hai mai amato? Pensaci -, cammino per la stanza su e giù, giù e su, cosa farò? la mia donna, i miei bambini, ho amato tutto questo o me lo hanno imposto?, - sparisci, chiaro? Sparisci!-
cosa mi hanno portato oggi da mangiare? Non capisco perché non aprono la porta e mi devono passare il cibo attraverso quella fessura lì in fondo, hanno paura forse? e di che? il piatto mi sembra sporco, sul bordo si trovano vecchie incrostazioni e la carne è immersa in una brodaglia gialla e nauseante, il cucchiaio di plastica puzza ed è bagnato, spero che non mi abbiano fatto il solito scherzo, pisciare sulle posate e nel piatto, non capisco perché non mi abbiano ancora perdonato, perché devo stare in questa stanza e mi lasciano cacare sotto, vivere per giorni nei miei escrementi, per quale motivo, cosa significa, perché tutto è così insulso?,
quando la notte non dormo e rifletto, quando la notte rifletto e non dormo, che gioia potrebbe darmi il sangue? da bambino ricordo che per addormentarmi dovevo far morire mia madre, mio padre, qualcuno che amavo, soltanto quella calda malinconia riusciva a cullare i miei sogni, immaginavo morti truci e la mia disperazione consolata da qualcuno, mia madre investita, uccisa per sbaglio, torturata da un maniaco, violentata da uno sconosciuto e poi sgozzata, e se mia moglie morisse? massacrata, vedo un rivolo di sangue scorrerle dal lato della bocca, il suo esile corpicino aperto, spalancato, il ventre che marcisce come l’antica vulva, piangerei, sì, al suo funerale mi strapperei i capelli, forse sua sorella mi darebbe attenzioni, mi accarezzerebbe le mani invecchiate, - il signor Cottafava mi ha detto che devi presentarti domani con quella lettera. Tuo zio c’è riuscito! Un lavoro ben retribuito, finalmente! Dove ci porti quest’estate? -, - Si potrebbe andare nei paesi dell’est, vedere qualche bella città, non so… -, - no! Non credi che per i bambini sia meglio prendere un po’ di sole? Lo dicono tutti che l’acqua salata fa bene. Andiamo al mare, dai? -, il suo esile corpicino, il suo esile CORPICINO
mi chiedo perché rinchiudere un pazzo assassino in una stanza e non permettergli di fare nulla,
mi chiedo cosa potrebbe fare un pazzo assassino da solo tra pareti bianche (dicono che uno con una matita che gli avevano dato in via del tutto eccezionale abbia accecato una infermiera e poi abbia anche provato a violentarla, eh eh),
mi chiedo perché accade tutto questo, “era una famiglia perfetta. Marito, moglie e due bambini meravigliosi. (stupito) E’ assolutamente inspiegabile.”
mi chiedo perché io non ho mai vissuto la mia vita veramente, “lui aveva cambiato parecchi lavori. Ma vivevano bene. (compiaciuto) Era un pazzo furioso. Eppure non sembrava.”
perché ho sposato quella donna bella come tante, “la moglie era bellissima e innamorata. Li conoscevo da tanti anni. Lui, non aveva mai dato segni di squilibrio. (terrorizzata) Non so come sia potuto succedere.”
perché ho ucciso quella donna bella come tante, “con un martello, poi. E’ orribile. (piange) Io abito qui da solo un anno ma quello che posso dire è che era una persona tranquilla…sì…tranquilla.”
perché la vita è sempre al di là dell’esperienza, “lo conosco da molti anni. (serio) Era una persona particolare. In alcuni periodi era taciturno e cupo.”
perchè non sono riuscito a fare nulla, “era insoddisfatto. Avrebbe voluto sempre fare qualcosa in più. (introspettivo) Quelle classiche persone che hanno dieci e vogliono venti. Poi hanno venti e vogliono quaranta…non so se sono stato chiaro.”
perché non sono riuscito a diventare cantante,
perché non sono riuscito a diventare attore,
perché non sono riuscito a diventare scrittore,
perché non sono riuscito a diventare qualcosa, e soprattutto perchè bisogna diventare qualcosa,
perché ho violentato sempre la mia parte vergine,
perché non provo pietà per i bambini, “se una cosa posso dire è che amava i suoi bambini. (banale) Una volta mi confessò che erano la sua unica ragione di vita.”
perché sono anticlericale e mi fa ribrezzo soltanto l’idea di dio, “era ateo. Ma credo che fosse, come dire, un fregio intellettuale. (quasi divertito) Gli piaceva anche bestemmiare ma soltanto per impressionare.”
perché non credo più neanche nell’uomo,
perché l’uomo sopravvive invece di scomparire come un volto disegnato sulla sabbia,
terzo “primo giorno” di lavoro. Noia. Tutto uguale. - come è andata, allora? -, - …bene -,
- ti trovi bene? -, - …sì -,
- c’era pure tuo zio? -, - …no -,
- c’è qualcosa che non va? -, - ..no, va tutto bene, sono soltanto stanco -,
- Oggi sono andata alla scuola dei bambini. Elisa non riesce a comunicare con i compagni di classe. Me lo ha detto la maestra. Verrà promossa, anche se è strana. Dicono che è strana. -, non vuole parlare? Fa bene, anche io ero così, poi mi hanno costretto, mi sono costretto, il mondo è socialità, l’uomo è animale politico!, un tempo forse, oggi l’uomo è solo con la sua ragione, con la sua coscienza, con il suo inconscio, con tutte le più piccole frammentazioni della sua persona, siamo obbligati a vivere dentro noi stessi e a vivere fuori, dentro e fuori fuori e dentro, ho paura di me, ho paura di fuori, - …lasciala perdere. Vedrai che con il tempo… -, - non voglio più aspettare. Antonella mi ha detto che anche suo figlio va da uno psicologo. Io ce la porto. Non voglio più aspettare!
uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove, dieci, undici, dodici, che noia! che fare? ho contato già un milione di volte le mattonelle del pavimento, tredici, quattordici, quindici, sedici, diciasette, credo che dovrò cominciare a contare le macchie su ogni mattonella, diciotto, diciannove, venti, ventuno, ventidue, ventitre, ventiquattro, sì sono ancora ventiquattro le mattonelle,
mi prude la schiena, perché mi prude la schiena sempre quando mi mettono la camicia di forza, non ci devo pensare, non devo pensarci, devo soltanto aspettare, qualche ora ancora, alcuni sessantaminuti, alcuni tremilaseicentosecondi,
sarà giorno o notte?, pioverà o sarà bel tempo?,
mi prude la schiena,
ho anche dimenticato cosa vuol dire la luce del sole negli occhi, mi ha sempre dato fastidio, forse meglio così,
mi prude la schiena e non ho mai avuto una donna che me la grattasse, o almeno una mano di plastica, magari regalata da una donna,
ora basta, è troppo caldo il sangue, e basta!, cosa hai da gridare?, è finita Elena, è finita, non gridare più, bene così, non gridare più, sennò i bambini si svegliano, poi come si fa se i bambini si svegliano?, poi dobbiamo rimetterli a dormire, non gridare più, ora salgo da loro, non ti preoccupare, ora salgo da loro, il martello che mi ha regalato mio fratello funziona bene, sì, funziona bene, ancora qualche momento e sarà finita per tutti, per tutti, ho paura di sentirmi così vivo, ho paura di quello che sto facendo, e intanto lo sto facendo, a colpi di martello, pam, non gridare pure tu, Elisa, pam, è meglio per te, ti ho liberata dall’obbligo di parlare, se tu potessi mi ringrazieresti, dicono che solo Dio può togliere la vita, pam, ed invece lo faccio io Antonio, pam, vuoi morire o no?, il babbo vi raggiungerà e poi tutti insieme non saremo nulla, nulla, i vostri esili corpicini, nulla,
UNA POESIA D’AMORE CHE
NON PARLA D’AMORE
di Gianluca Paletta
Pur vicino al tempo si scopre nuda pelle…
…non è il vuoto
a ritrarsi è l’uomo a corazzarsi in essa.
Breve il mio tranello…
piede e terra il suo gemito…
così come la fame…muore quando morde
SCRIVERE
di Gianluca Paletta
copiare la citazione Paul Auster
…nell’incredibile
scempio si fa luce un pensiero mirato…una luce radiosa e tumefatta,
in esso si fa strada una macchia carnosa…silenzio braccato a
minimo evento.
come il vomito, la scrittura
si apre in superficie, restituendoci il tutto a una velocità
frammentaria…ostile…
una condizione inafferrabile…inavvicinabile,
quasi scontata…ma la si lascia scalcinare ugualmente.
come il conato sfuggito alla bocca…ne duole ne ferisce,
è una scia profonda…che l’occhio dimesso rapprende.
UNA VACANZA ESTIVA
di Fabio Rocco Oliva
Si andò ad Auschwitz - contammo i morti lungo i binari del treno a Birkenau mentre fumavamo una sigaretta di tabacco arrotolata con dita gelate e sudate - l’odore del legno dei block - quattro corpi giovani lungo le rotaie della soluzione finale – scarpe e valigie e ciocche di capelli ammucchiati - calcolammo che morivano mille persone al giorno il che significa una persona ogni minuto e mezzo circa – una sigaretta di tabacco può durare dieci minuti – ovvero sette condannati - una sigaretta di tabacco è un punto di riferimento per ricordare quanta gente muore ogni minuto e mezzo ad Auschwitz - calcolo sempre quanto tempo impiego a fumare qualche vita in una sigaretta di tabacco a tempo variabile
di Fabio Rocco Oliva
La mia camera consiste in un letto ad una piazza, una scrivania ad una piazza, un termosifone ad una piazza, qualche libro vagante, un armadio a muro con un’ anta perennemente aperta su cui c’è uno specchio, vecchia ossessione da evitare, all’interno dell’armadio ci sono delle maglie a maniche corte, due maglioni, un jeans, un filo per il telefono, un calice blu con dentro un cucchiaio, un quattro pezzi verticali di alluminio e tre orizzontali a formare una libreria, quattro mura totalmente bianche e storte, una finestra che ritaglia il panorama di una terrazza desolata, vicino al letto una cassettiera su cui da tempo giacciono gli stessi libri e un piccolo vaso con un fiore, regalo di una amica.
I giorni e le notti avevano
Il pallore
Di questi giorni e queste notti.
C’era la luna clara di Cuba
Che smascherava
Il terrore dilagante.
I falangisti, i fascisti a Granata
Marciavano inferociti
Beffardi
Verso la tua casa.
La giovane Repubblica di Spagna
Venne data alle fiamme.
Le tue grida intrise di sangue
Giunsero lontano
Si incrociarono, si strinsero
Alle mie grida
In un alba d’agosto
Senza eguali
Per bellezza e ferocia.
Il tempo non cancellò tutto
Il tempo.
L’amore del tuo sogno
La tua sete di libertà
Crebbero forte nelle nostre carni
Furono la nostra stessa vita.
Ma ora…ora…Federico carissimo
Quasi settant’anni sono trascorsi…
Il mondo è ancora infestato
Di insaziabili egoismi
Guerre
Fascismi
Aumenta la follia
Nel cervello umano.
Sulle strade d’Europa
Che vacilla
Si risentono di nuovo
Gli schiamazzi
Degli aguzzini
Dei violenti
Contro questo nostro cuore
Risoluto determinato
A resistere
Resistere
All’assassinio e alla morte
1 minuto e 32 secondi dalla fine
Da copiare
«Quando mi guardo allo specchio rido di me stessa. Spazzolo i miei capelli. Ci sono un paio di occhi, due lunghe trecce, due piedi. Li guardo come dadi in una scatola e mi chiedo se, scuotendoli, potrebbero balzare fuori e diventare me. Non posso dire come tutti questi pezzi separati possano essere me. Io non esisto. Non sono un corpo.»
Anias Nin
…non è angoscia ne dolore,
Ne tanto meno indignazione…
è un attimo misurato…un passo
fuggevolmente stretto all’occhio che non torna
e muore…
Guardami…Aderente alla lingua, un grido
– baciandomi a tratti, mordendone gelidamente
il racconto - agisce sulla bocca come storia
sulla gola del tempo…
Ha voglia di estendersi …non importa dove…
Non ha importanza quando…
malgrado ciò ingoia e mi sorprende…non ha
fame…eppure mi divora.
Perché mai questo?
…l’occhio è già stretto a me…
Al di fuori di me…già li, in carne e ossa,
sradicato-lussureggiante, munto a bestia…
dovrei per questo essere stremato…lo so…ma
è ben altro a inchiodarmi…la mia voce
soffocata? Il muro ? Le gambe e i piedi?
L’umano contatto?
Non può essere questo…è vero?...ci deve
essere dell’altro...ma cosa? è vinto IL MIO
sguardo…Non
ha un viso il suo rituale, non potrei mai cercarmi altrove…questo mi è
chiaro…
dovrei per questo commuovermi?
PIANGERE?
…I rumori semplificano di molto ciò che la
vita ci riserba…capisci…il crepitio degli
uomini…la strada frugata a pieni polmoni dal
vento…il bicchiere…la mano consegnata alle
labbra…sussulto non rumore, hai ragione…Si
estranea… non ha voce…
mi stringe senza soffocarmi il suo
gemito…sfregia…assolve...non da tregua il
suo riguardo…Tuttavia «non posso dire come
tutti questi pezzi separati possono essere me»*
ALCUNE NOTE SULLA TRASGRESSIONE
di Delio Salottolo
Una seduzione circola tra le strade.
Un’attrazione precisa. Uomini in cravatta e ragazzini solitari si guardano circospetti. La percezione di un rischio. Un rischio che ognuno cerca di correre. Un gioco del rischio e una languida attrazione per il rischio.
La trasgressione e il pensiero del fuori.
La provocazione della legge, la volontà di smascherare ciò che, nel gioco di forze, l’uomo incontra al di là della semplice apparenza delle cose, apparenza e parvenza indotta da un visibile opprimente.
Provocazione e trasgressione.
Ulisse non ascolta il canto delle Sirene e torna alla sua patria, Enea abbandona Didone al suo gesto e siede sulle sponde del lago Averno. Sigfrido, bello e infinito, incontra se stesso e la vendetta nella propria uccisione.
Il fuori e la sua seduzione continua. Il fuori e la sua esclusione. Gli spazi bianchi come infinito contorno della scelta.
Il fiore colto dall’uomo in un prato di infiniti fiori.
Queste poche parole verranno spese attorno alla nozione di trasgressione e di rischio e alla conseguente seduzione dell’intreccio di entrambe.
Cos’è trasgressione? Domanda che pone difficoltà nella stessa formulazione. Domanda che si rivolge ad un oltre. Ad un andare oltre. Chiedere alla trasgressione di parlare e di definirsi è chiedere all’invisibile di apparire.
Chiedere all’invisibile di apparire è l’ambiguità dell’uomo moderno.
Ciò che non si può vedere, ciò di cui è impossibile fare discorso è il tormento e l’impossibilità: non più ricerca di infinito tranquillizzante e morale, ma disperata accettazione della finitudine.
Riflessione sulla finitudine come minuscolo edificio immerso in un territorio ampio e invisibile.
Candore dell’invisibilità. E purezza dell’indicibile.
L’uomo vuole vedere e parlare di ciò che ha escluso in quanto essere razionale. Ripiegato all’interno di un guanto l’uomo tenta di rivoltarlo.
Follia,
dispersione,
spreco,
perversione,
letteratura:
in poche parole Trasgressione.
E’ questa la via per uscire dall’edificio? L’uomo moderno si dibatte. E’ inconsolabile. Uscire dall’edificio significa abbandonare la propria terra, la propria pratica di vita.
Uscire è impossibile.
Trasgressione apre due categorie di problemi: uno legato alla descrizione e alla volontà di un limite, l’altra che mette in ballo la nostra stessa costituzione.
Perciò, di nuovo.
Cos’è trasgressione? Lo sappiamo tutti. La cerchiamo spesso. E’ reazione alla noia e all’imposizione. E’ cercare la stranezza. In poche parole, trasgressione è tentativo di fuga nei territori inesplorati che circondano la nostra contea calma e sicura di conoscenza.
E’ accettazione del limite e godimento del limite.
Ed il limite è invito continuo al suo superamento.
è ricerca e studio della rarificazione delle proprie possibilità;
è la lotta contro l’esclusione;
è il silenzio che chiede la parola;
è la disperazione dell’invisibile.
è la sessualità sfrenata di Sade e l’orrore per i corpi di Pasolini;
è la morte di Dio e la calma disperazione della spirale di Calvino.
è lo sguardo della vecchia riflesso nel coccio di vetro;
La follia è Trasgressione. Come il sesso.
in un vicolo, in un prato, in una chiesa sconsacrata o no, in un cimitero;
spera di trovarsi in un territorio che abbiamo dovuto abbandonare e al quale dobbiamo fare giusto ritorno;
Una soglia attraversata la quale è il rischio a dominare. Un territorio non conosciuto è il rischio per ogni esploratore.
Un uomo che ammazza i propri bambini, che con veloci colpi brutalizza il corpo della sua donna per poi farla finita anche con se stesso. E’ risposta ad una determinata situazione?
Può essere semplicemente risposta o contiene in sé un’istanza di domanda che mette in gioco tutta la realtà dell’uomo?
Ed allora.
Perché trasgressione? Domanda che mette in gioco tutto l’essere umano. Domanda che parla dell’uomo e di Dio.
E del vuoto dovuto alla fine di entrambi.
Perché trasgressione? Perché è il ritmo ossessivo dell’esclusione.
Con più precisione.
Perché trasgressione? Un punto fermo. La morte di Dio.
Cosa ha significato la dichiarazione della morte di qualcosa che non esiste?
La morte di Dio rappresenta la fine di una concezione serena dell’Illimitato. Tutto il dominio della notte che circondava l’esistenza dell’individuo era nelle mani di Dio. Supremo ordine e suprema bontà.
Ascesi.
Ricerca dell’infinito verticale.
Mortificazione della carne ed elevazione all’infinito. Affermazione di un limite che tende all’infinito. Tutto ciò che non siamo noi è serenità dei campi elisi o vendetta delle fiamme di Satana.
Un infinito semplice.
Un Illimitato con una signoria ben precisa. Cosa è accaduto nello spazio lasciato vuoto da Dio? Dal riso che ha accompagnato la morte di un qualcosa che non esiste? E’ rimasto l’uomo, soltanto.
L’uomo ha creduto di poter sostituire facilmente Dio.
L’uomo ha creduto di poterlo sostituire con efficacia.
L’uomo ha posto la sua finitudine come limite ambiguo alla propria realizzazione. “Dio è morto. Non fa nulla, del resto non era mai esistito. Era una comodità. Ora c’è l’Uomo, però. Istanza molto più forte e coerente. Accettazione della finitudine ed esclusione di tutto il resto”.
L’uomo ha iniziato in tal modo un cammino che lo ha portato ad assecondare la propria ragione progettuale.
L’uomo si è fondato come soggetto unitario portatore di diritti e libertà e non riesce a sentirsi disperso da un potere che lo circonda da ogni dove;
ha creduto di essere legislatore di ogni possibile conoscenza e rischia di ammettere di essere il fondatore di ciò che lo ha realmente fondato;
crede di essere esistito sempre e non si rende conto che è nato da poco e che forse dovrebbe farsi da parte ben presto.
Se la ragione umana si è imposta con questa violenta forza di esclusione con la quale essa ha spinto verso la creazione di un edificio nel quale l’uomo potesse trovarsi sicuro e cosciente di sé, trattenendo all’esterno dell’edificio la maggior parte degli oggetti considerati inutili o relegando all’interno di esso, ma nella forma della prigionia e della malattia, quegli oggetti attraverso i quali, per differenza, potesse raccogliere una unità di senso attorno a se stesso, la trasgressione assume su di sé l’ingrato compito di fornire il limite alla comprensione.
Non più semplicemente trasgressione nella sessualità esplicita, nello spreco di forze e proprietà (tra l’altro presente negli indiani d’America come massima sfida e pratica obbligatoria, il potlach), non più la follia come portatrice di un sapere Altro, nel senso di profezia e simbolo di una potenza atavica e religiosa, ma trasgressione come istanza di analisi prediletta per la comprensione.
Analisi e rischio. Sconfitta. Collera del guerriero.
PERCORSI
Nome di Gianluca
…Il tempo si è fermato, solo
Gli occhi lo attraversano…dovrei
Spaventarmi? Protendere mani al
Contatto? Non so!
…la lingua, scia e silenzioso paradosso, non ha reclami…
bevono dall’estremità di un bicchiere le mie
Labbra ramate…quasi un’eternità rivoltosa che si infrange
Di soppiatto…non è il tempo nè tanto meno il suo corpo
Di rame a minacciarmi…perché mai poi dovrebbe farlo?
Crolla e si raduna sul nuovo, la storia…
gli oggetti, sospesi al passaggio di essa, fermi e
capienti in essa, non cercano altra soluzione, eccetto me…
è una mano a cercarmi? Non capisco…
Il tempo, la storia… concomitante al corpo, stretta alle dita
unanime al passaggio, la loro presa
NOVECENTO
…tremula e iridescente, lurida nella sua pacatezza…
la parola uomini.
…come l’impronunciabile vuoto
che si ritrae nell’attesa…
come l’angoloso grido umano che ripiega ansante nello spazio;
così…rimarginandosi nel sangue,
l’annosa bocca di un secolo
- traccia e istanza - cingerà verbosa le nostre labbra…
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