IL TAGLIO DELLA LINGUA

Di Fabio Rocco Oliva e Delio Salottolo

Il sipario si apre lentamente. La scena è buia. Si sente trambusto, persone che corrono, corpi che vengono colpiti. Di tanto in tanto si sentono grida strazianti di una donna. La sofferenza riempie la scena. Il sipario si chiude lentamente.

ATTO PRIMO

In una stanza non troppo luminosa, una donna giace in un angolo. Su una sedia poco lontana, in penombra si trova un uomo che si dondola lentamente.

L’ho finalmente fatto. Non attendevo altro da anni.

Ho finalmente compiuto l’atto decisivo che racchiude in sé tutta la mia vergogna spenta. Ho giaciuto una vita intera tra le trame soffocanti di minuti-giorni-anni indistinguibili e soffocanti. Ho smancicato i resti della vita e ne ho staccato piccoli pezzettini attendendo l’attimo della consacrazione. Ho deturpato la mia esistenza (non era per me un grande dono!) e mi sono immerso nel pantano sperando di trovarvi qualcosa.

Ed infine ho violentato, mutilato e ucciso questa donna e non provo dolore. Non più del solito.

Nonostante ciò credevo di poterne gioire.

L’uomo interrompe l’oscillazione della sedia. Si alza, accende una candela e comincia a camminare per la stanza.

Ed ora guardo nuovamente gli occhi terrorizzati di questa donna. Sono ore che siedo, mi dondolo, mi alzo, fisso questi occhi, poi siedo, mi dondolo, mi alzo e fisso questi occhi. Nell’iride ghiacciata di un’espressione orami sfiorita scorgo la mia efferatezza. E vi leggo tutto ciò che è accaduto. Le ho tagliato la lingua e ho sentito la bocca riempirsi di sangue e tra i miei mugolii ho sentito l’annaspare. In un secondo momento, mentre languiva nel suo silenzio indotto, le ho tagliato le mani in maniera tale che in quei moncherini docili e delicati io non potessi più afferrare nulla.

Nei suoi occhi ho visto i miei e ho avuto paura di cavarglieli.

Ho dovuto uccidere questa donna perché la incontravo ovunque. Tra me e la realtà e tra me e me c’era sempre lei e mi mostrava sempre uno strano sbadiglio decorato da denti nero e oro.

Che ribrezzo!

Mi sono confuso.

La donna dalle gambe aperte tra le quali ho goduto innumerevoli volte soltanto per ritrovarmi tra le dita il mio arto appeso e inerme, non era lei. Ero io.

Ero io ed era lei.

Ho compreso finalmente l’impossibilità di parlare e ho visto la mia lingua nascondersi in un angolo buio della stanza. Ho sentito come fosse impossibile afferrare alcunché.

La mia vita non era la mia, e non era quella di questa donna. Sua o mia non importa

perché una vita immobile non è già più vita.

Ora non sento neanche più il bisogno di sbadigliare. La noia è un attaccamento alla vita morboso e insofferente.

C’è qualcosa di meraviglioso nell’imbrunire di un uomo. L’attesa di una nuova alba. (lo sussurra più volte)

Siede nuovamente. Comincia a dondolarsi.

Ora attendo che si compia quello per cui ho fatto tutto questo.

Non ho alcuna fretta però.

Aspetto che mi portino finalmente in gabbia. Una gabbia vera, s’intende. Spero che abbia delle sbarre talmente fitte che il mio pensiero non riesca ad attraversarle e a uscire, rincorrendo e violentando le vecchie strade percorse infinite volte.

Ho dovuto, in queste ore, evocare l’intera stagione dei miei sentimenti: L’epoca in cui il corpo nutriva e l’anima si ingrassava.

Ripercorro in queste lunghe ore di attesa tutta la mia vita.

Camminavo per brevi e intense strade che tutte insieme avevano la forma di lividi labirinti immaginari. Ma tutto era più semplice. Tutto era felice produzione della mia anima. Avevo compreso l’assoluta banalità della mia vita. (ridendo) Sarebbe stato così facile intraprendere nuove strade! (più sostenuto) Sarebbe stato così semplice fuggire da quelle poche strade conosciute! Tutto sarebbe stato possibile! Ma non è vero. Soltanto l’omicidio poteva avere un significato. E attraverso me non si distruggerà soltanto la mia vita ma tutto quello che circonda i miei residui.

E soltanto ora l’ho fatto!

Immerso nella mia popolazione di fantasmi, ho temuto per la mia incolumità e sono riuscito a fare il mio peggio. Ho amato donne e donne e non ho incontrato la soddisfazione.

Si sente bussare alla porta, una fragorosa e oscena risata.

Finalmente.

Finalmente sono giunti a prendermi.

Due maschere feroci mi prenderanno.

Ed io andrò con loro anche se credo che il mio supplizio sarà feroce.

Non ho paura della sofferenza fisica. Come potrei?

Non credo che mi lasceranno inerme a godere la mia sofferenza tra mura. Sarebbe troppo facile. Un dono che non mi merito.

Mi sento traboccante. Inonderò tutto.

Soltanto allora soffrirò sul serio e sarà definitiva la trasformazione.

ATTO SECONDO

Imprigionato in un cella bianca, mura bianche, asettiche, senza finestre, tra due prigionieri.

Allora corro verso il primo prigioniero che vedo, ti stringo il braccio - ti volti - mi fissi. Cominci a ridere e non posso fermarti: balli con una maschera nera sul volto e ridi di me. Ride di me. Il tuo viso è nascosto dal sorriso di questa maschera assurda. Ti aggrappi al mito passato di te. Non mi ascolti, non mi ascolterai mai. Ogni passo di donna e ogni bambino e ogni uomo disperato e ogni maledetto e stupido velo di sorriso e ogni autocompiacimento da sconfitto e adattamento autodistruttivo e ogni spettro passato di Napoli, tutto questo mi punge il petto mentre ti vedo ballare e ridere. Il sorriso delle vecchie nei vicoli, il sorriso dei vecchi pescatori nei quadri, il sorriso a tavola mentre si mangia e si ricorda, il sorriso negli angoli delle strade, nei negozi, dietro le mie spalle, nella mia mente, nei progetti e nelle risse e negli accoltellamenti che vedo ogni notte, il sorriso degli sconfitti su un’altalena, il sorriso che rifiuta la vita, i pulcinella masaniello e gli spaghetti tra le mani. Il vecchio volto di Napoli canta allegro e con la pala in mano seppellisce se stesso.

Si volta dall’altro lato della cella, verso il secondo prigioniero.

Ti prendo per un braccio - ti volti mi fissi - un’altra maschera nera, un altro sorriso. Ho paura, ho il sorriso di Napoli addosso. Mi angoscia. Vuoi ridere anche tu? e allora cerco di trovare altro sotto il sorriso. Ti strappo la maschera, la butto a terra e la calpesto: gli indico l’altro prigioniero. Non ridi più? mi tendi la mano? tremante e sudata. Sotto la tua pelle nessuna credenza, nessun dio, nessun appiglio, un continuo collasso, un sudore freddo. Il tuo corpo trema. Ridi e hai gli occhi allucinati, hai mille paranoie, orrore difetto e impossibilità, paura, abbandono. La vita ti trapassa senza poterla afferrare, e le tue domande abortite, gli imbarazzi, l’incomunicabilità, la frammentarietà, le celle, le prigioni e queste quattro mura chiuse. Mi sento angosciato e asmatico. Annaspo in cerca d’aria e sento puzzo di marcio, solo marcio.

L’uomo prende per mano i due prigionieri e siedono in un angolo.

ATTO TERZO

Incatenato sul cratere del Vesuvio, a pezzi e solo.

L’osservo da ore ed è un cerchio tutto chiuso - io e il vulcano, entrambi chiusi e insensibili l’uno all’altro. La curvatura delle sue labbra è lunga e rossa, la cavità non è profonda. Tutto scivola verso il basso, tutte le pietre, le lucertole e i raggi del sole, ogni cosa verso le viscere del Vesuvio. Mi volto verso Napoli. Io, un nano sulle spalle di un vulcano.

Mi accascerò al suolo e porgerò l’orecchio alla lava.

L’afa confonde tutto. La città e il mare perdono i loro colori, un velo grigio dietro il quale il sole cerca uno squarcio, un buco per riflettersi nella sua città.

Nel silenzio di una nuvola ho sentito la lava bisbigliarmi qualcosa all’orecchio, un sorriso di morte che copre tutta la città e mi sono sentito salvo sulle spalle del Vesuvio.

Non è possibile scavarsi la fossa con questo sorriso. Desidero che il Vesuvio erutti e mi scagli a brandelli sulla mia città. Che mi lasci giacere su questa terra e sentire il sorriso trasformarsi in lacrime.

E allora è questo che desidero: vedere Napoli piangere, vedere Napoli dannarsi e disperarsi. Perciò ho ucciso, per questo ho compiuto il suicidio. Si precipiti pure, senza nascondersi dietro un sorriso. Nel dolore sincero qualcuno troverà l’onestà. Nella sofferenza, nella consapevolezza della dannazione della nostra città che ride incosciente e impotente.

L’uomo incontrollatamente comincia ad urlare restando immobile.

Napoli, voltati e guardati riflessa nel cratere del tuo vulcano e prendi coscienza della lava che sei, brucia, non fuggire al dolore. Ho le urla della lava nel mio corpo, nelle mie braccia, nei miei capelli da medusa. Vedo le vene pulsare sotto la pelle, il cuore battere metallicamente, la piena veduta di tutta Napoli, immensa, che mi solca il petto, mi entra nelle costole, nei polmoni. Sono allo spasimo, sono teso, il mio copro trema e non posso fermarlo, ho le braccia spalancate e non ho più il controllo su me stesso, non più io, non più nulla, incatenato sull’orlo di questo Vesuvio con i due prigionieri nel mio corpo, sento la lava bisbigliare e ribollire continuamente, la città penetrarmi strisciando lungo il vulcano.

Dietro di me la bocca del Vesuvio si muove e mi parla della vecchia puttana di Napoli che mentre si lava le cosce sporche sorride sguaiata e incosciente. Sento tumori per tutto il copro. Sto bene.

L’uomo si volta di scatto e si lancia nel Vesuvio

Cadiamo insieme nella bocca del Vesuvio, le mani dei prigionieri strette ancora alle mie, la terra del cratere aprirsi, le viscere del vulcano, la sua bocca aperta, la lava ci ingoia.

Non ho alcun rimpianto mentre brucio.

Sono la lava ormai nel Vesuvio.

Buio. Una luce rossa leggera. Il Vesuvio ha eruttato. Si sente una voce senza corpo.

Sono ancora una volta per le strade della mia città, la riscaldo, voglio riscaldarla tutta.

Sento un urlo terrificante curvarsi ovunque per tutta la città, un esplosione terribile ogni secondo.

Mi mescolo alla terra, entro ancora una volta nella terra e scomparirò nelle strade della città.

In superficie, resta solo un immenso e grigio sbuffo di fumo, solitario. Un’ombra siede presso la sorgente.

Lo stivale ammicca da lontano al folle suicidio. Che guardi distante la vecchia puttana morire e bruciare!

L’ombra abbraccia il fumo.

Resta il caldo e accogliente nulla, solo la possibilità di abbracciare il fumo e le rovine della città e qui, da questo fumo, dalle rovine, dal suicidio inevitabile, voglio costruirmi, crearmi in orizzontale con la città, viverci, aprirci alle proprie infinite possibilità di sentirsi e crearsi a Napoli.

L’ombra si alza ed è rivolto al pubblico

Ho le mani che sanno ancora di fumo, odorano di passato, continuazione altra del vecchio.

Intorno a me ora c’è solo fumo, la lava ha incenerito tutto.

Il vecchio mito è conservato nella lava, tutta la città è lava, tutta la città è deserto e attende qualcuno che la calpesti ancora.

Non più giovane, non più vecchia, non solo moribonda, né sana, non vergine, ma colpevole, assurda, un frammento impossibile.

L’uomo è solo, intorno a sé non c’è nulla, solo buio e fumo. E’ di spalle.

Abbraccio il fumo e soffro, lo tengo stretto per non perderlo e lo stendo e mi stendo per tutta la città.

Si sdraia a terra


1 commento:

Anonimo ha detto...

good start