EDITORIALE
E’ una questione di fermento. E di ricerca.
Vuol dire sentire sulla pelle la violenza del reale ed il latrato della ragione. Vuol dire fuggire verso territori Altri. Scappare dalle parole ordinate e ben costruite, dagli schemi perfetti e gia segnati, dai pensieri obbligati e sensati. Fuggire ed incontrare le rabbie, le provocazioni, le illusioni, le lacrime, le credenze, le realtà, le verità, le essenze, i discorsi, le parole, le cose: di ogni tipo e di ogni forma. Raccoglierle e lasciare che fermentino in noi. E per fare ciò, è necessario rinchiuderle, soffocarle, trattenerle, pregarle affinché rimangano e soltanto allora lasciarle fuggire. Perderle, ritrovarle, rincorrerle, illudersi che esistano, convincersi che non esistano. Ed infine stillarle. E quelle poche gocce hanno la potenza cristallina e limpida. Quelle poche gocce, che siano parole, colori su tela, note o scatti, sono la creazione di un uomo. E l’esperienza del limite diventa così la strada maestra. Non più fuga, ma unica possibilità concessa. E la disperazione coglie molti quando comprendono che l’unica possibilità di raggiungere luoghi Altri, radure serene e assolate si chiami follia. O sragione.
Ma creare è un bisogno che investe l’essere umano in tutte le sue espressioni. L’uomo ha creato Dio che ha creato tutto. Questo bisogno (anche se il termine è inesatto: non abbiamo bisogno noi di creare, ma è la creazione che ha bisogno perenne di noi) che anima le pagine del LABAUT risulta essere qualcosa di più. La ricerca letteraria e artistica convoglia energie che rischiano di andare disperse tra altre pieghe della realtà e pretende una finalità che vada oltre quella della impossibile e, forse, insensata arte per l’arte. Imprimere la propria arte sul fango della realtà significa lasciare un’impronta. Arte e realtà sono splendidamente speculari e sporche. L’una copia l’altra in un gioco di specchi deformanti: l’arte imprime il suo senso alla realtà, e la realtà sbeffeggia l’arte stando sempre un passo avanti. Ma l’arte rende possibile quel passo in avanti, ne pone le fondamenta. O cerca di fare ciò. E’ nella sua essenza, è nel suo modo di compiersi ed attuarsi. L’arte non può e non deve indietreggiare nei riguardi della responsabilità e delle masse. Deve riuscire a muovere qualcosa anche nel ventunesimo secolo. Ed è un compito reso duro e ostico a causa del dominio dell’industria culturale e dei poteri liberal-democratici stordenti.
Il LABAUT, allora, vuole combattere contro questa morfina. Vuole combattere contro l’inconsistente benessere al quale siamo stati consegnati e alla vergogna alla quale Napoli, centro propulsore di arte e vita, è stata relegata.
Il rammarico di chi fa cultura a Napoli è lo scontrarsi in maniera frontale con quanto viene proposto di Napoli come fusione tra esposizione massmediologica e stereotipi antichi adattati ad un moderno teatro borghese della semplicità e della banalità. Napoli viene prostituita in continuazione da chi pretende di servirsene. Allora possiamo osservare
Napoli, dunque, rischia di naufragare. Il centro storico, luogo di incontro di tutta la gioventù contro e alternativa e di scambio culturale e sociale, è ormai nelle mani di qualche banda di ragazzini che vagano inferociti sui motorini, per i quali non valgano solamente e semplicemente le categorie giustificazioniste della frustrazione e della povertà. A Napoli c’è la camorra che, costituitasi ormai come struttura del pensiero oltre che come istituzione parastatale, non permette sicure classificazioni e crea una situazione esistenziale complessa e sofferente per tutti: esaltazione e violenza, giovani capaci di spaccare la testa al primo che capita, senza alcun motivo, le istituzioni sorridenti e volgari. Nessuno fa Nulla. Quei ragazzi sono la rappresentazione della camorra che appoggia le istituzioni e le giunte comunali. Ed il potere si attua in questa perversione, nell’ammiccamento osceno tra istituzione e camorra. Tutti, infine, godono tra le gambe asciutte e rinsecchite della vecchia puttana Napoli. E ai suoi seni ormai prosciugati si attaccano politici di ogni sorta e camorristi. Ma la gente si ritira. Si rinchiude nel proprio mondo o va via, senza troppi rimpianti. L’aria non è più serena, il sole non è più una consolazione. Si sente angoscia tremante nell’aria. Timore. Non più libertà e divertimento. Molti abbandonano la nave nel momento in cui si aprono ovunque falle enormi che lasciano presagire l’imminente naufragio. E si gettano nel mare per inseguire il canto delle sirene.
E Napoli rischia di rimanere sola con se stessa.
Cos’è allora Napoli?
Napoli è un pendolo che oscilla in continuazione tra una gioia atavica della miseria ed una angoscia profonda delle circostanze.
Delio Salottolo